Henri Alleg
in Hommage à Léo Matarasso, Séminaire sur le droit des peuples Cahier réalisé par CEDETIM-LIDLP-CEDIDELP, Février 1999
Ero andato a prenderlo all’aeroporto, in una vecchia auto a quattro cavalli malridotta… le nostre auto, la mia e quelle dei nostri colleghi giornalisti erano state sequestrate e mi ero scusato per non essere stato in grado di offrirgli un veicolo degno del suo rango… Questo lo fece sorridere… ma coraggiosamente prese posto, e io mi meravigliai di vedere questo grande avvocato parigino che mi aveva tanto impressionato, accettare così volentieri di essere il mio passeggero, con tutti i rischi che ciò rappresentava… e non solo politici… Tanto più che il motore, appena avviato, tossiva come un pazzo, si fermava a suo capriccio, e dovevo sollevare il cofano e, con l’aiuto di un cacciavite, provocare la scintilla che lo avrebbe fatto ripartire. Sulla strada per l’aeroporto di Algeri, questo successe diverse volte, e Léo, forse preoccupato ma sempre sorridente, vedeva in questo incidente solo l’aspetto poetico: “Bisogna fare la scintilla miracolosa”, scherzava, con tutto l’umorismo e la bonomia che ho avuto molte volte l’opportunità di apprezzare dopo, e in circostanze molto più drammatiche, come sappiamo.
“Questo non ti spaventa?” gli ho detto
“Sai, mi piace vivere pericolosamente!”
Tale era Léo, così sorridentemente educato, sempre con un tocco di ironia che me lo ha fatto apprezzare dal primo momento in cui ci siamo incontrati. Non il genere di avvocato freddo e distante, preoccupato solo della causa, non delle persone… Per esempio, quando ero quasi completamente scomparso dagli occhi del mondo, che mi credeva anche morto, Léo fece mandare dei fiori a Gilberte, mia moglie, da parte mia… Era un gesto che veniva da lui… un modo molto personale di darle speranza, di dirle che non tutto era perduto…
Ho avuto anche l’opportunità, in diverse occasioni, di ammirare l’uomo di cultura, discreto e profondo, che era, senza mai ostentarlo… E per me, giornalista di un paese coloniale, un po’ provinciale, era sempre un piacere discutere con lui di tanti argomenti politici, giuridici o letterari. E da parte sua, Léo ha scoperto, attraverso me e gli altri miei compagni militanti e giornalisti, tutti perseguitati e alcuni già arrestati, il sistema coloniale di questo paese dove la legge era comunemente violata, dove la tortura era pratica comune, incoraggiata da magistrati e giudici corrotti e complici.
Dopo questo primo incontro all’aeroporto di Algeri, mi sono nascosto, poi sono stato arrestato, ed è in prigione che ho rivisto Léo: nella prigione di Barberousse, dove aveva ottenuto il diritto di visita. Nel frattempo, come ho raccontato nel mio libro, ero caduto nelle mani dei paracadutisti, ero stato torturato, dato per morto, e poi rinchiuso nel campo di Lodi: e, come dalla casa di tortura che da questo campo di concentramento, non si poteva comunicare con il mondo esterno.
E fu allora che un gruppo di avvocati, tra cui Léo, intervenne e sposò la causa dei prigionieri algerini, comunisti o no, arrestati e torturati per le loro convinzioni e la loro lotta per un’Algeria indipendente. Si trattava di un gruppo di avvocati totalmente volontari, senza alcuna protezione; persone che rischiavano davvero la vita per salvare la nostra, e per denunciare i soprusi di cui eravamo vittime. Léo era particolarmente noto per la sua simpatia nei nostri confronti, e i rischi che correva in ogni momento ci erano noti, e gli eravamo infinitamente grati.
Tanto più che non avevamo avvocati algerini su cui contare; quelli che erano dalla nostra parte, dell’FLN o dell’APC, erano stati tutti arrestati e sbattuti in prigione; e gli altri, europei, sostenitori dell’Algeria francese, avrebbero preferito affondarci piuttosto che difenderci, o lo avrebbero fatto solo per una grossa cifra, e su basi giuridiche dubbie; cosa che, in ogni caso, avremmo rifiutato.
Così, in prigione, vivevamo in una sorta di attesa permanente, e le visite di Léo alla sala colloqui della prigione Barbarossa erano più di una visita di un avvocato al suo cliente – di nuovo, era un volontario – era anche una visita di amicizia, e ci ha dato coraggio per molto tempo, perché le informazioni che mi dava, potevo passarle agli altri prigionieri, e questo li aiutava, naturalmente, a resistere.
E così, di visita in visita, raccontai a Léo quello che mi era successo, le torture che avevo subito, e Léo mi disse: “Devi scriverlo, devi scriverlo”. E come? Tre di noi in una cella, senza sedie, senza tavolo, solo un pagliericcio sul pavimento, e un buco nel pavimento come gabinetto… Niente carta… tranne la carta igienica… Eravamo costantemente osservati, perquisiti… quindi come potevamo sfuggire alla vigilanza delle guardie? Léo mi ha detto: “Tu riesci… sei un giornalista, nove decimi degli altri prigionieri sono analfabeti, tu sei l’unico che può farlo”.
Così sono tornato alla mia cella con un compito… portarla dall’interno all’esterno, ma questo significava superare difficoltà senza nome. Comunque, alla fine siamo riusciti ad ottenere un quaderno, una matita, e ho cominciato a scrivere, pagina dopo pagina, che doveva essere nascosta appena l’ho scritta… Quindi non c’era tempo per rileggere… E come farli uscire?
Nella stanza delle visite, sì. Perché nella sala delle visite degli avvocati non c’erano cancelli o sbarre; era un piccolo spazio vetrato, circondato da guardie, ma con un tavolo nel mezzo, che permetteva di passare le cose sotto… E mentre venivi perquisito prima e dopo, dovevi trovare dei nascondigli più o meno sicuri… nei tuoi vestiti, nelle tue scarpe… bigliettini piegati in quarti, in otto… E Léo rischiava anche di essere perquisito all’uscita! Così, in questa eventualità, iniziavo sempre i miei appunti con un’introduzione molto neutra e ufficiale, del tipo: “Caro Maestro, ecco alcuni nuovi elementi che possono aiutarla nella mia difesa… “. Beh, è stato comunque molto rischioso!
Così questi foglietti sono finiti in Francia, e Léo li ha passati a Gilberte, mia moglie, e poi ad amici del partito, che volevano semplicemente farne un opuscolo che sarebbe stato distribuito dal partito.
Léo si oppose a questo: Léo voleva che uscisse dal piccolo – anche se grande all’epoca – circolo comunista. Bisognava trovare un editore, e fu Léo che lottò per trovarlo…
Dunque trovarlo è stato facile, in un certo senso… Tutti gli editori riconobbero che si trattava di una testimonianza capitale, un documento che doveva assolutamente essere pubblicato… ma nessuno di loro corse il rischio… e fu infine Jérôme Lindon che, coraggiosamente, lo pubblicò con le Edizioni de Minuit, nel febbraio 1958.
Léo era giustamente molto felice, molto orgoglioso del risultato; e non mi rendevo conto all’epoca delle ripercussioni che avrebbe avuto questo libro.
Poi c’è stata la preparazione del processo! Il processo “ufficiale”, dove saremmo stati giudicati per “associazione criminale”. Eravamo una decina, compreso Maurice Audin – assente, e per una buona ragione, visto che era morto sotto tortura, ma le cui autorità sostenevano che era fuggito e che si erano perse le sue tracce! – e poiché avevano paura di questo processo, paura di dover portare un morto assassinato davanti a un Tribunale, le autorità fecero durare l’inchiesta più di tre anni, e alla fine il processo ebbe luogo, ma a porte chiuse. Léo ha lottato contro questo processo a porte chiuse, dicendo ai giudici: “Tutto quello che sarà detto qui sarà conosciuto in Francia e nel mondo intero, tutto quello che voi impedirete di dire sarà anche conosciuto, lo giuro”.
È stato molto forte, molto commovente, davanti ai giornalisti presenti, e con un coraggio esemplare, che si è imposto a tutti.
(intervista raccolta da Vera Feyder)