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Il diritto dei popoli, dalla dichiarazione di Algeri agli anni ’90

    Louis Joinet

    in Hommage à Léo Matarasso, Séminaire sur le droit des peuples, Cahier réalisé par CEDETIM-LIDLP-CEDIDELP, Février 1999

    Il preambolo della Dichiarazione di Algeri inizia con le parole: “Viviamo in tempi di grande speranza, ma anche di grande preoccupazione”. Sono più rilevanti che mai.
    Sebbene la Dichiarazione abbia preso in prestito molto dal diritto positivo, ha anche innovato sotto l’impulso di Léo Matarasso, che diceva: “Portate i testi al di là delle frontiere che gli Stati, per loro natura, impongono loro”. È il caso della Dichiarazione, in quanto riunisce elementi ispirati alle norme esistenti per unirle intorno a un tema mobilitante, aggiungendo così valore ai testi in vigore.
    La parte più discussa del Preambolo era il suo ultimo paragrafo: “Ma questi sono anche tempi di frustrazione e sconfitta, quando nuove forme di imperialismo emergono per opprimere e sfruttare i popoli”. Alcuni hanno dato una classica interpretazione Nord/Sud. Altri, e questa era la mia opinione, gli hanno dato una portata ugualmente Est/Ovest, cioè “contro tutti gli imperialismi”, quello dei sovietici come quello dei cinesi, anche se hanno preso strade specifiche.
    Alla fine, è la prima tesi che mi sembra aver prevalso: “L’imperialismo, con mezzi perfidi e brutali, con la complicità di governi spesso installati da lui stesso, continua a dominare una parte del mondo”. Anche se questa formulazione può essere applicata all'”Impero” sovietico, o anche alla Cina (mi viene in mente il Tibet).
    Al di là delle parole, è chiaro che il termine “imperialismo” è caduto un po’ in disuso nella letteratura del diritto dei popoli, per essere sostituito dal concetto di “globalizzazione”.

    Che ne è del testo stesso?
    La sezione 1 della Dichiarazione, che riguarda il diritto all’esistenza, presenta, a mio avviso, due lacune. “Nessuno potrà essere sottoposto, a causa della sua identità nazionale o culturale, a massacri, torture, persecuzioni, deportazioni, espulsioni o a condizioni di vita tali da compromettere l’identità o l’integrità del popolo a cui appartiene”. Ancora oggi mi chiedo perché non abbiamo incluso la parola “genocidio” invece di “massacro” in questa lista di crimini di diritto internazionale, quando vivevamo in tempi di genocidio.
    Allo stesso modo, abbiamo preso di mira “l’identità nazionale o culturale” omettendo “l’appartenenza religiosa”, anche se l’esperienza ci insegna che spesso gioca un ruolo decisivo nei tumulti della storia, sia qui, attraverso un proselitismo oppressivo, sia là, per liberare (pensiamo, per esempio, alla teologia della liberazione dei nostri amici latinoamericani).

    La sezione 2, sul diritto all’autodeterminazione, è stata scritta in un momento in cui la maggior parte dei popoli con cui eravamo solidali aveva ottenuto l’indipendenza, almeno politica.
    Rimaneva da risolvere la questione dell’indipendenza economica e la transizione dalla democrazia esterna a quella interna.
    La base di ciò è stabilita nell’articolo 7, che afferma che “tutti i popoli hanno diritto a un sistema di governo democratico, rappresentativo di tutti i cittadini senza distinzione di razza, sesso, credo o colore, e capace di assicurare l’effettivo rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti”. Anche se è difficile stabilire quali siano le caratteristiche oggettive di un regime democratico, la Dichiarazione procede concretamente: lo Stato è capace di salvaguardare i diritti fondamentali? La risposta a questa domanda determina il carattere democratico di uno stato. In questo contesto, la Dichiarazione rimane fondamentalmente rilevante, così come uno strumento di lotta e di analisi.
    Tuttavia, se dovessimo aggiornare la Dichiarazione, la questione dell’autodeterminazione interna sarebbe una priorità, poiché la maggior parte dei popoli in lotta sono diventati Stati, attraverso la conquista della loro indipendenza. In questo senso, la Dichiarazione di Helsinki è degna di nota, in quanto insiste sul diritto all’autodeterminazione attraverso lo svolgimento di elezioni, ma anche attraverso l’accettazione dell’alternanza politica: questo punto è essenziale, perché sottolinea che se i popoli hanno il diritto all’autodeterminazione sovrana rispetto al loro regime politico, questo diritto implica il diritto a cambiarlo.
    L’articolo 6 della Dichiarazione di Algeri è simile al preambolo sull’imperialismo, poiché quando afferma che “tutti i popoli hanno diritto alla libertà dalla dominazione coloniale o aliena, diretta o indiretta”, il termine “indiretta” si riferisce all’indipendenza economica e alla presenza di multinazionali.
    Anche se questo punto è stato menzionato solo brevemente nella Dichiarazione di Algeri, ci rendiamo conto che ha assunto una notevole importanza.

    La sezione 3, relativa ai diritti economici, ha dato luogo a un intenso dibattito giuridico, soprattutto in relazione all’articolo 8, in cui l’avvocato cileno E. Novoa è stato attivamente coinvolto a causa della situazione in Cile. Essa afferma che “ogni popolo ha un diritto esclusivo alle sue ricchezze e risorse naturali. Hanno il diritto di recuperarli se ne sono stati derubati e di recuperare le indennità ingiustamente pagate”.
    Oggi, la spoliazione delle ricchezze di alcuni paesi ha raggiunto una scala tale che la questione non è solo una questione di diritto commerciale, o anche di diritto penale. È una questione di diritto internazionale pubblico. Nel caso del Cile, per esempio, come nel caso dell’Indonesia, delle Filippine o di Panama, è necessario andare oltre le iniziative individuali che portano solo a cause contro individui, e non a una messa in discussione del sistema che ha sostenuto questa spoliazione. In questo contesto, c’è un urgente bisogno di far progredire il diritto internazionale.

    La sezione 5 e il diritto delle minoranze hanno suscitato i dibattiti più accesi durante la discussione della clausola di salvaguardia, che afferma che il diritto delle minoranze non deve essere dannoso per lo Stato.
    Bisogna notare che il concetto di minoranze, in alcuni paesi, è totalmente inadeguato quando si tratta di maggioranze oppresse (come in Guatemala). Questa è una delle ragioni per cui i testi dell’ONU si riferiscono, in questo caso, ai popoli, alle popolazioni indigene.
    Inizialmente, questo approccio era ovvio, poiché si trattava il più delle volte dell’oppressione di un popolo da parte di un altro stato, ma con il progresso della decolonizzazione politica e l’emergere dei popoli come stati, è sorta la questione se, in nome del diritto dei popoli come definito nella Dichiarazione di Algeri, le minoranze potessero, nel nuovo stato, causare una scissione come popolo all’interno dello stato.
    Due scuole di pensiero alimentarono il dibattito: i massimalisti, che credevano che tutti i popoli avessero diritto alla loro autonomia o indipendenza e che, di conseguenza, nessuna ragion di stato potesse essere applicata a loro; e i sostenitori della salvaguardia dello stato come antidoto ai rischi di balcanizzazione. La principale difficoltà di questa sezione era legata al concetto della Lega per i Diritti dei Popoli di dare priorità alla causa dei popoli rispetto a quella degli Stati.
    L’articolo 21, in mancanza di un consenso, ha dato luogo a un compromesso precisando che “l’esercizio di questi diritti (delle minoranze) deve rispettare gli interessi legittimi della comunità nel suo insieme, e non deve autorizzare interferenze con l’integrità territoriale e l’unità politica dello Stato”, rivendicando così quest’ultima, con la seguente riserva: “purché lo Stato si comporti in conformità con tutti i principi enunciati nella presente Dichiarazione”. Questo compromesso è stato ripreso anche nella Dichiarazione di Helsinki.
    Questa sezione dovrebbe quindi essere più sviluppata di quanto non sia nella sua versione attuale.
    Secondo l’articolo 20 “i membri della minoranza godono, senza discriminazione, degli stessi diritti degli altri cittadini dello Stato e partecipano con essi in modo uguale alla vita pubblica”, ma l’attuazione di questo articolo pone un grande problema politico. Quando si dice: “i membri della minoranza godranno, senza discriminazione, degli stessi diritti degli altri cittadini dello Stato” si tratta di un approccio individualista: se si rispettano i diritti umani di ogni individuo, si rispettano i diritti di ogni minoranza nel suo insieme.
    Nel caso della Nuova Caledonia, ho voluto far votare una risoluzione alla sottocommissione dei diritti umani dell’ONU, di cui sono membro come esperto indipendente.
    Tuttavia, dopo una discussione in una riunione di LIDLIP, J.M. Djibavu mi ha convinto che l’organo pertinente non era il comitato per i diritti umani, ma il “comitato di decolonizzazione” perché l’obiettivo fondamentale era l’indipendenza.
    Questo approccio individualista è stato fortunatamente temperato dalla frase “e partecipare ugualmente con loro alla vita pubblica”. Questa partecipazione richiede non solo elezioni libere, ma anche un sistema di equa rappresentanza delle diverse etnie nella popolazione. La presenza di diverse etnie crea situazioni in cui i sistemi occidentali di rappresentazione della sovranità del popolo non si adattano. Per esempio, in Ruanda, il problema era quello di coinvolgere le diverse componenti della popolazione in un sistema di sovranità popolare. Oltre a tenere le elezioni, si tratta anche di assicurare che ci siano ministri di ogni gruppo etnico. Il sistema europeo non è quindi facilmente trasponibile, perché in questo caso non si tratta solo di pluralismo politico ma anche di pluralismo etnico.

    Rimane sufficientemente attuale o merita di essere completata o rivalutata su alcuni punti per non perdere di vista l’idea di Léo Matarasso di promuovere la Dichiarazione come punto di riferimento giuridico del diritto internazionale?
    Se vogliamo che abbia un valore normativo maggiore, ci sono tre opzioni. O prende la forma di una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU, o quella di una Convenzione, ma gli Stati non accetteranno mai di ratificare certi articoli così come sono presentati, o infine la Dichiarazione dovrebbe avere il valore di diritto consuetudinario. Quest’ultima tesi, cara a Léo Matarasso, richiede, tra l’altro, la militanza di alcuni e di altri affinché le istituzioni internazionali, come la Corte di Giustizia dell’Aia, ne tengano progressivamente conto quando governano.

    Joinet, Louis

    in:

    <strong>Hommage à Léo Matarasso, Séminaire sur le droit des peuples
    Cahier réalisé par CEDETIM-LIDLP-CEDIDELP, Février 1999
    L’Harmattan, Paris, 2004</strong>

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    Léo Matarasso