Anne Kaboré
in Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos (gennaio1994)
L’opinione degli accademici è unanime almeno su un punto, e questo è positivo: il concetto di popolo è plurivoco. C’è chi parlerà più teneramente di “parola camaleontica” (E. Jouve), più freddamente di “concetto polisemico” (F. Rigaux), meno cautamente di “nozione in mezzo all’ideologia” (G. Cahln), con più preoccupazione di “nozione vaga e imprecisa… difficile da prevenire” (A. Cristescu). Insomma, esistono tante definizioni quanti sono i popoli (secondo le conclusioni del simposio di esperti organizzato dall’UNESCO ad Harare).
Giuristi, sociologi e politologi si passano il quid sulla definizione di popolo. Dibattiti futili e verbosi tra specialisti? Perché alla fine, “ogni volta che nella storia un popolo ha preso coscienza di essere un popolo, tutte le definizioni si sono rivelate superflue, come ci ricorda il relatore speciale della Sottocommissione ONU per la prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze”. No, però, ci sono altre questioni in gioco e non è senza malizia che A. Giélé, che ha partecipato come esperto alla stesura della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, sottolinea che l’ambiguità sulla definizione di popolo è stata deliberatamente mantenuta.
Le questioni legate alla definizione di un popolo
Le questioni sono in realtà due: se sia possibile definire il concetto di popolo e se tale definizione sia appropriata. Il dibattito preliminare riguarda la seconda questione. E qui la dottrina è divisa. Le tendenze principali sono due: definire un popolo a priori significherebbe privare alcuni gruppi di popolazione che non rientrano in questa definizione della loro potenziale capacità di rivendicare questo diritto. Oppure, e qui l’effetto è opposto, definire il concetto di popolo consentirebbe a ogni entità di “tentare la fortuna”, nessuna esclusa a priori; o infine, rifiutare di definire il popolo come soggetto di diritto manterrebbe la dipendenza dell’esercizio dei diritti dei popoli dal campo della politica. Ci sono quindi argomenti a favore di un’applicazione più ampia del diritto dei popoli o a favore di una sua limitazione, sia da parte di chi propone di definire il popolo sia da parte di chi non ne vede la necessità? Questa è la prova del legame tra la definizione di popolo e la sfera di applicazione del contenuto giuridico del principio del diritto dei popoli.
Senza cercare una definizione universale di popolo, che sarebbe certamente inappropriata, molti autori e istituzioni internazionali hanno cercato di “chiarire” questo concetto. Si tratta semplicemente di una questione di buon senso. Secondo S. Senese, l’interesse di questa analisi risiede “non solo in una necessità giuridica: sapere cos’è un popolo per riconoscergli dei diritti”, ma anche per “far luce sulla filosofia politica che sta alla base” del diritto dei popoli.
Gli attuali eventi internazionali e il costante riferimento al diritto dei popoli, attraverso la questione del nazionalismo, dell’intangibilità dei confini, dell’identità nazionale o anche del diritto di ingerenza, illustrano l’importanza di definire il concetto di popolo e il suo approccio come soggetto di diritto. Ci sembra che J. Verhoeven esponga i problemi in modo molto chiaro. Il postulato secondo cui si afferma “l’esistenza, accanto o dietro lo Stato, di un’entità – il popolo – che non può essere totalmente confusa con lo Stato e di cui lo Stato non può pretendere di essere il mediatore esclusivo” è “di interesse giuridico solo se il popolo ha diritti riconosciuti”. Secondo lo stesso autore, si pongono quindi tre questioni:
1. Se esiste un diritto dei popoli, qual è il suo contenuto e la sua portata normativa?
2. Se un popolo è il titolare di un diritto, quali sono le condizioni che permettono di definire quali degli innumerevoli raggruppamenti umani sono o non sono popoli?
3. Ammesso che queste condizioni siano state definite, quali sono i meccanismi o le procedure che permettono di identificare concretamente le entità che le soddisfano?
Bisogna ammettere che, allo stato attuale, il diritto internazionale non fornisce risposte chiare a queste domande, e questo è il motivo della sua incapacità o dei suoi effetti perversi.
Infatti, se interrogarsi sul significato del concetto di popolo nel diritto internazionale significa “porre innanzitutto l’autonomia del popolo rispetto allo Stato” e la sua anteriorità, è vero che, come ci ricorda S. Pierre-Caps, situare il popolo rispetto allo Stato non è la stessa cosa che situare lo Stato rispetto al popolo. È vero che, come ricorda S. Pierre-Caps, localizzare lo spazio in cui sorge la pretesa di un popolo all’esistenza giuridica non significa definirlo giuridicamente. Se è difficile “predefinire il popolo”, non è forse urgente trovare gli elementi costitutivi che permettono di stabilire la struttura di un popolo e chiedersi, in ultima analisi, “qual è la soglia dell’esistenza di un popolo”?
Come definire il popolo?
Possiamo stabilire una sorta di tipologia di tecniche di approccio al concetto di popolo.
A. Un popolo è definito dalla sua situazione
Esiste una dicotomia tra l’apparente universalità dei termini utilizzati nei testi internazionali e l’applicazione restrittiva del diritto dei popoli. Così l’espressione “tutti i popoli”, spesso utilizzata nei testi delle Nazioni Unite, si riferisce in pratica ai “popoli coloniali” o ai “popoli sottoposti a dominazione, occupazione o controllo coloniale straniero”. Secondo J.F. Guilhaudis, questo porta all’equazione: popolazione coloniale=popolo.
Una delle domande che sorgono è dove finisca il popolo coloniale e dove inizi il popolo vittima del neocolonialismo. Questa mancanza di un criterio definitorio porterà quindi le Nazioni Unite ad agire caso per caso. Ma va notato che l’effetto di questa equazione è quello di attribuire il diritto dei popoli ai “nuovi popoli”, nel senso che è il quadro statale imposto dal colonizzatore a delimitare questo popolo, che si fonde con la popolazione di uno Stato, una popolazione la cui omogeneità dei membri è di scarsa importanza.
Dai lavori preparatori delle risoluzioni ONU è emerso che il termine “tutti i popoli” comprendeva sia “gruppi etnici che Stati”, o addirittura “tutta l’umanità”.
L’autore del rapporto della Sottocommissione ONU, A. Critescu, propone un tentativo di definizione:
– il termine “popolo” si riferisce a un’entità sociale con una chiara identità e caratteristiche proprie;
– implica una relazione con un territorio;
– un popolo non è la stessa cosa di una minoranza etnica, religiosa o linguistica.
Tuttavia, l’autore conclude: “Gli Stati, nel senso internazionale del termine, sono chiaramente dei popoli”. Possiamo allora stabilire una seconda equazione: Stato = Popolo? Ma allora siamo nella confusione più totale!
B. Il popolo è definito dai suoi diritti
Molti studiosi di diritto concordano con questa proposizione. Come dice F. Rigaux: “Per configurare il popolo, basta descrivere come si determina”. Quindi, per esistere, un popolo ha tre forme di autodeterminazione: politica, economica e culturale. Questo approccio implica che sia stata presa una decisione sullo status di un popolo come soggetto di diritto internazionale, il che non è vero. Inoltre, subordina la definizione di popolo a quella di Stato. Infine, il tentativo di definire un popolo in termini di diritti può apparire tanto più difficile in quanto: il popolo non è un concetto giuridico, ma “rientra in categorie che hanno un significato giuridico” (G. Soulier). Questa difficoltà è aggravata dal fatto che non tutti i popoli hanno gli stessi diritti. Infine, questo approccio pecca di legalismo, poiché il rapporto tra significante e significato non può essere influenzato solo dal contesto concettuale giuridico, ma anche da pressioni esterne.
Infine, la questione principale sollevata da questo approccio alle persone attraverso i loro diritti è necessariamente quella di prendere posizione sull’idea dei diritti dei popoli. Più decidiamo di concedere diritti ai popoli, più ampia sarà la concezione di popolo.
C. Il popolo è definito dalla sua lotta
La trasformazione del popolo in un movimento di liberazione è spesso considerata un modo privilegiato per testimoniare l’esistenza del popolo. Un popolo che non lotta per la sua esistenza”, dice C. Chaumont, “anche se possiede gli “elementi oggettivi della comunità”, è solo un “agglomerato”. Chaumont. Altri autori preferiscono concludere dalla pratica di queste lotte “forti presunzioni dell’esistenza di un popolo”. Questo ci porta all’equazione popolo=movimento di liberazione. La questione che si pone è chi sarà competente a riconoscere questi movimenti – un ruolo attualmente devoluto alle organizzazioni regionali interstatali. L’altra questione è quella dell’efficacia del movimento di liberazione. La consacrazione legale della lotta esiste solo quando il popolo è vittorioso? La legge si limita a legittimare uno stato di cose che condanna i popoli numericamente deboli e disarmati?
In ogni caso, questo approccio rende il popolo un concetto transitorio. Altri autori metteranno poi in evidenza gli elementi permanenti nella definizione di popolo.
D. Approcci descrittivi al popolo
Il primo approccio consiste nel riunire i termini popolo, Stato e nazione. Si tratta di un vecchio dibattito. Ognuno di questi termini si riferisce in misura maggiore o minore alle nozioni di popolazione, territorio e unità politica. Allo stesso modo, si pone la questione dell’approssimazione oggettiva o soggettiva, più volontaristica, del popolo.
Altri analisti hanno definito il popolo come “una relazione tra gli esclusi e gli inclusi” (G. Cahin e D. Carkacl). Per A. Fenet, se il popolo viene privato di un’omogeneità concettuale, si nota la comparsa cronologica di tre popoli: il popolo cittadino, il popolo coloniale e il popolo minoritario, una comunità etnica.
E. Approcci ideologici al popolo
Resta da ricordare le definizioni di popolo come: popolo di Dio, popolo lavoratore, popolo civilizzato.
Come deve essere definito un popolo nel diritto internazionale?
Va detto che, se il significato di base di un popolo è “un gruppo di persone”, le definizioni variano a seconda del contesto ideologico. Ma se ci riferiamo strettamente al diritto internazionale positivo, ci sono tre categorie di “gruppo di persone” soggette al diritto internazionale: i popoli, le minoranze e le popolazioni indigene. Il confine tra queste tre categorie è labile e ci si può chiedere se la prima categoria, così come abbiamo delineato la sua definizione, non comprenda anche le altre due.
A) Minoranze
Ricordiamo quattro approcci che ci sembrano relativamente rappresentativi, per quanto riguarda la definizione di minoranze.
1.Secondo la Sottocommissione delle Nazioni Unite per la prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze, che ha dedicato diversi rapporti alla questione, le minoranze possono essere definite in termini di cinque elementi:
a) i membri devono essere cittadini dello Stato in cui vivono
b) devono appartenere a un gruppo di popolazione distinto con tradizioni o caratteristiche etniche, religiose o linguistiche diverse da quelle del resto della popolazione
c) deve voler preservare la propria identità
d) ha bisogno di protezione per sviluppare le proprie caratteristiche
e) il gruppo deve essere in minoranza quantitativa.
Si notino i limiti a questo riconoscimento che sono stati formulati:
a) il gruppo non deve contribuire a rallentare i cambiamenti nei comportamenti dovuti all’evoluzione generale legata alla modernità
b) non deve rispettare pratiche contrarie ai diritti umani
c) il gruppo deve essere sufficientemente numeroso per potersi mantenere e non deve imporre al bilancio dello Stato un onere sproporzionato rispetto al suo scopo
d) infine, “le minoranze devono dimostrare fedeltà allo Stato di cui fanno parte”.
(estratti dal rapporto di F. Capotorti: Study of the rights of persons belonging to ethnic, religious and linguistic minorities, Nazioni Unite, 1979).
2. Lontano da vincoli diplomatici o giuridici, A. Fenet propone un approccio radicalmente diverso alla questione delle minoranze. Un approccio che riteniamo fondamentale per una chiara comprensione del concetto. Ecco un breve promemoria.
Una minoranza è innanzitutto una situazione di minoranza, che è essa stessa una “produzione di potere”. Esiste una minoranza solo perché esiste una maggioranza, definita dalla logica implacabile dello Stato-nazione formulata dalla borghesia attraverso la nozione di sovranità. La nazione è un’astrazione che implica la perdita di identità di ogni individuo e che distacca la società politica dalla realtà. La nazione è identificata con lo Stato e qualsiasi gruppo che si discosti da questo modello è sovversivo. Questa teoria è stata ripresa dagli Stati socialisti, dove la volontà dello Stato sovietico era la volontà di tutto il popolo. La stessa decolonizzazione – attraverso la dichiarazione del 1960 sulla concessione dell’indipendenza – conferma questa logica. Infatti, il suo punto di partenza sono i territori, non i popoli (si veda il simposio di Reims sul “concetto di popolo nel diritto internazionale”). Va da sé che le implicazioni giuridiche di una tale definizione, che mette in discussione l’esistenza di qualsiasi centro, hanno una portata ben diversa da quella sopra riportata.
3. La Dichiarazione di Algeri amplia il primo approccio, senza aderire al secondo, proponendo la nozione di popolo minoritario. Quindi, né un vero e proprio popolo, né solo una minoranza? Questo approccio ha certamente il vantaggio di evidenziare la fragilità del confine tra le due nozioni (“quando un popolo costituisce una minoranza”), ma ha il vantaggio di precisare le implicazioni giuridiche? Resta il fatto che anche in questo caso il popolo minoritario – titolare di diritti specifici (articoli 19-21) – non ha diritto alla secessione, a meno che non si trovi in uno Stato che non rispetta i diritti riconosciuti dalla Dichiarazione…
4. In un momento in cui le implicazioni giuridiche, in termini di status internazionale – indipendenza o autonomia – dei concetti di popolo, minoranza, nazionalità sono dibattute tra legalità e illegalità, legittimità e illegittimità, è sembrato opportuno fare riferimento al progetto di risoluzione per la protezione delle minoranze approvato il 21 febbraio 1992 dalla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. In un articolo intitolato “Promouvoir une nouvelle légalité” (“Promuovere una nuova legalità”) pubblicato sul numero 17 di Manière de voir du Monde Diplomatique, dedicato alla tragedia jugoslava, J. Yacoub illustra i principali contributi e limiti della risoluzione. Ne riportiamo alcuni estratti.
“Per la prima volta, un documento internazionale utilizza il termine “particolarità” oltre a “caratteristiche”. Inoltre, sottolinea il dovere degli Stati di “incoraggiare la conoscenza della storia” (delle minoranze). “Ma i redattori non sono riusciti… a definire i concetti di minoranza, nazione o gruppo etnico. Ciò pone la questione di chi decide che un gruppo ha il diritto di rivendicare lo status di minoranza: lo Stato o gli organismi internazionali?
“Il testo è vago anche sul rapporto tra diritti individuali e collettivi”. “Inoltre, menziona a malapena i doveri delle minoranze (compresa la lealtà verso lo Stato, che deve proteggerle). “Inoltre, la Dichiarazione non affronta una questione delicata ma complessa: quando una minoranza ha il diritto all’autodeterminazione? Altre due carenze sono sollevate dall’autore: non è prevista la partecipazione delle organizzazioni che rappresentano le minoranze ai programmi di cooperazione tra gli Stati che le riguardano e “non è stata prevista la possibilità di ricorrere agli organismi internazionali”.
B) Sulle popolazioni indigene (di Kasra Mofarah)
Indigeno, un termine quasi d’altri tempi, per esprimere di fatto l’abitante originario. Sono oltre 300 milioni, cioè un ventesimo della popolazione mondiale, suddivisi in quasi 5.000 gruppi etnici.
Dopo aver subito la conquista, la colonizzazione e la schiavitù, queste popolazioni vivono oggi sotto l’oppressione dello Stato-nazione e dello sviluppo industriale. L’eliminazione, l’acculturazione, l’esclusione e il saccheggio delle risorse naturali del loro territorio sono la loro sorte quotidiana. Nel migliore dei casi, gli Stati più attenti alla loro immagine optano per una politica di assimilazione.
Minacciate di estinzione, queste popolazioni lottano per il riconoscimento dei loro diritti. La legittimità del loro diritto all’autodeterminazione e a un territorio è determinata dal fattore storico e dalla loro anteriorità. È qui che possiamo distinguere tra popolazioni indigene e minoranze.
Dal 1988, nell’ambito degli organismi delle Nazioni Unite che dal 1985 hanno creato un fondo di contribuzione volontaria per i popoli indigeni, questi ultimi non sono più considerati come una popolazione ma come un popolo.
Nel 1993 è avvenuto il riconoscimento dei popoli indigeni e le Nazioni Unite si sono preparate a codificare i diritti dei popoli indigeni sotto forma di dichiarazione universale per garantire la loro libertà, la loro uguaglianza con gli altri popoli in “dignità e diritti”, per migliorare le loro condizioni di vita e il loro sviluppo economico, sociale e culturale e per proteggere i loro diritti all’istruzione, alla salute, alla lingua, all’espressione collettiva e alla proprietà intellettuale.
A questo proposito, si vedano il Bollettino CRIDEV n. 113, ottobre-novembre 1993, intitolato Peuples en marche (Popoli in movimento), i 14 numeri di Vivre autrement (Vivere diversamente), pubblicati dall’ENDA Tiers Monde, Delegazione in Europa (tel.: 43 72 09 09), dedicati alla Conferenza internazionale di Vienna sui diritti umani, e il dossier prodotto dalle Nazioni Unite Popolazioni indigene: l’anno internazionale 1993.
Se dovessimo concludere…
I popoli indigeni, come vengono oggi ufficialmente chiamati, sono quindi una certa categoria di persone il cui diritto all’autodeterminazione o alla secessione – come nel caso delle minoranze – non è stato esplicitamente risolto o affrontato. La molteplicità degli approcci al concetto di popolo, se contrapposta all’immensità dei drammi o delle speranze generate dalla sua attuazione o dalla sua rivendicazione, lascia un grande vuoto. Data la crescente complessità degli attuali sviluppi globali, la necessità di definire chiaramente la legittimità o la qualità dei suoi attori ci sembra vitale per la credibilità del diritto dei popoli e la sua realizzazione. Sono finiti i tempi della decolonizzazione in cui ci si poteva accontentare di un approccio facile e spesso falsificato alla nozione di popolo – come soggetto di diritto!
Kaboré, Annein: Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos (gennaio1994)