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Ambiente e sviluppo

    Giorgio Nebbia

    in Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos, n.ro 6 (febbraio 1985)

    Abbiamo chiesto a Giorgio Nebbia, ecologo, docente di merceologia, deputato della Sinistra Indipendente, un’opinione sui problemi ambientali e lo sviluppo. Ci risponde con una simpatica e lunga lettera che ripropone l’importanza di un dibattito approfondito su questo tema.
    ♦ ♦ ♦
    Mi pare che il discorso potrebbe partire dai rapporti fra merci e sviluppo. Per soddisfare i bisogni umani (e per il momento non specifichiamo ‘quali’ bisogni) occorrono dei beni materiali che si fabbricano partendo da risorse naturali (minerali, acqua, risorse vegetali e animali, fonti di energia) e trasformandole, col lavoro umano, in “cose”, cioè in beni materiali, in merci.
    A ben guardare tutti i bisogni umani richiedono merci; anche il bisogno di conoscenza (carta, macchine da stampa), di comunicazione (fili di rame, telefoni ecc.), anche il bisogno di bellezza (per poter andare a vedere un paesaggio o un museo) e avanti di questo passo.
    Partiamo dall’ipotesi che le risorse naturali disponibili non siano illimitate; teoricamente quanti più siamo e quanto più e meglio soddisfiamo i nostri bisogni umani, tanto maggiore è la richiesta di merci e di risorse naturali. Se l’ipotesi iniziale è vera, quanto più soddisfiamo i bisogni umani, tanto più presto si esauriscono, o impoveriscono, le riserve di risorse naturali; tanto più rapidamente “qualcuno” diventa più povero.
    Il caso del petrolio è illuminante; fino a quando le condizioni coloniali dei paesi petroliferi sono state tali da poterli costringere a vendere a basso prezzo una merce le cui scorte si impoverivano sempre più, tanto più ricchi alcuni paesi diventavano e tanto più poveri diventavano i paesi petroliferi.
    Se si rileggono gli atti delle conferenze CNUCED, queste richieste di più equi rapporti internazionali risalgono agli anni ’60. Visto che nessuno dei paesi ricchi dava una risposta ragionevole, è cominciata la ribellione (di Allende nel Cile, di Gheddafi in Libia, dei paesi petroliferi arabi dal 1973 in avanti), la richiesta di un nuovo ordine economico internazionale, eccetera.
    Nel momento in cui si crede di fare giustizia, assicurando ai paesi che possiedono materie prime vendibili a prezzi più giusti e regolando e limitando l’impoverimento delle riserve di materie scarse, in questo momento la soluzione per i paesi industriali va cercata nell’avere ‘di meno’.
    È chiaro che questo criterio è assurdo in una società il cui dogma è avere ‘di più’ (il dogma dell’aumento del prodotto interno lordo, dell’incremento dei consumi, ecc.). Però si può continuare ad avere di più ‘soltanto’ imponendo a qualcun altro di avere di meno; alcuni possono diventare più ricchi soltanto facendo diventare altri più poveri.
    Ed è abbastanza ragionevole che chi diventa più povero, quando se ne accorge, si arrabbia e si ribella.
    La presentazione di questi fatti “nel nome del profitto” può apparire una schematizzazione, ma non lo è. Non sarà vero che esiste il capitalista in tuba e tight che toglie di bocca al povero negro il suo cibo, ma la violenza del profitto, o della regola del “di più”, si manifesta in infinite maniere.
    Qualsiasi assemblea di uomini politici, come i Parlamenti democratici, decide continuamente per il bene dei suoi amministrati; per proteggere i posti di lavoro dei contadini del Polesine e dei metallurgici di Bagnoli giustamente chiediamo di poter tenere in vita la bieticoltura o la siderurgia o migliaia di altre attività economiche. E poiché non si può produrre zucchero se qualcuno non lo mangia, e ciascun individuo, per quanto volonteroso, può mangiare un po’ di zucchero (o usare un po’ di acciaio) e non di più, per forza devi costringere qualcun altro a limitare la ‘sua’ produzione di zucchero o di acciaio.
    Avanti di questo passo scopri che i tanto dichiarati principi internazionalistici (aiutare i paesi ad aiutarsi, assicurare lo sviluppo dei paesi poveri, ecc.) si traducono nella speranza, nell’invito fraterno, che i paesi poveri si avviino sulla strada dello sviluppo economico.
    Che vuol dire produrre zucchero, o acciaio, o ocarine elettroniche, o blue jeans o scarpe.
    Addirittura vendiamo ai paesi poveri fabbriche e acciaierie e tessiture di blue jeans, ecc. Quando queste merci appaiono nel nostro mercato chiudiamo però le porte perché nessuno si azzarda a dire ai contadini del Polesine o ai siderurgici di Bagnoli di non lavorare per aiutare i paesi del Terzo mondo che vogliono vendere il loro zucchero e acciaio.
    Allora introduciamo, giustamente, strumenti protezionistici nei confronti delle merci dei paesi poveri e poi, altrettanto giustamente, ci stracciamo le vesti perché i poveri muoiono di fame.
    Possiamo chiederci di consumare di meno e di produrre di meno (e pertanto di consumare di meno) per assicurare ai paesi poveri un avvio verso lo sviluppo? Possiamo decidere che i bisogni umani devono essere soddisfatti con certi mezzi e non con altri? Possiamo decidere che è più lodevole una automobile ‘piccola’ che consuma ‘poca’ energia, che non deve superare certi limiti di velocità? Possiamo pianificare la dimensione delle case per usare e sprecare ‘meno’ territorio e consumare ‘meno’ energia?
    Possiamo decidere di usare giornali e riviste più brutti e di carta riciclata per consumare ‘meno’ boschi? Possiamo limitare la pubblicità che si traduce in spreco di merci, denaro, intelligenza, limitando e standardizzando la qualità delle merci? E imponendo ai fabbricanti di guadagnare di ‘meno’?
    A tutto questo stavo pensando quando ho usato il termine “nel nome del profitto”.
    Io considero auspicabile una transizione a questo tipo di società – la vuoi chiamare “austera”, se non è parolaccia? – ma la considero anche indispensabile se non si vuole andare incontro a una serie senza fine di conflitti, tensioni, fino a una guerra mondiale nucleare.
    Non so se una società rigorosamente comunista – ma non come quelle dei socialismi reali – sarebbe in grado di far fronte alle contraddizioni fra popolazione crescente e scarsità di risorse naturali, alle contraddizioni dovute agli squilibri fra varie parti del mondo.
    Forse una società democratica sarebbe capace di darsi dei vincoli, vincendo le opposizioni degli interessi economici più beceri (del “profitto”).
    Forse proprio le società democratiche sono state capaci di avviare le riforme che hanno reso meno inumana la società capitalistica (dalle Child Acts dell’Inghilterra vittoriana, alla limitazione degli esperimenti nucleari nell’atmosfera, e così via).
    Forse verso questa linea bisogna combattere, avendo di fronte l’impegno di avere coraggio di dire “no” a certe scelte, di limitare certi consumi.
    Quali consumi? di chi? per aiutare chi, nel mondo?
    Non so dare risposte; so solo porre domande, a me stesso per primo.
    Non c’è dubbio che se la Lega avviasse un dibattito su questo tema – risorse, merci, popolazione – compirebbe l’unica cosa utile e necessaria per il futuro.

    Nebbia, Giorgio
    in: Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos, n.ro 6 (febbraio 1985)

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