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Attualità di una proposta

    Salvatore Senese

    in Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos, n.ro 8 (ottobre 1986)

    Dieci anni fa, il 4 luglio 1976, una conferenza internazionale di uomini politici, leader di movimenti di liberazione, personalità dell’arte e della scienza, giuristi, riunita ad Algeri su iniziativa di Lelio Basso, proclamava la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli. Il documento non costituisce un testo di diritto internazionale, non fa parte dell’ordine giuridico che (bene o male) dovrebbe regolare le relazioni tra Stati e tra popoli. Esprime piuttosto un progetto politico-culturale articolato in formule giuridiche desunte dal diritto internazionale e dotate di una vocazione all’universalità e all’effettività.
    E tuttavia la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli non potrebbe essere considerata come il frutto di una brillante operazione intellettuale: dietro ciascuna delle sue enunciazioni vi sono le sofferte esperienze d’intollerabili vessazioni della persona o addirittura grandi tragedie storiche e v’è, insieme, la presa di coscienza di milioni di esseri umani, l’emergere della dignità dell’uomo in aree del mondo molto più vaste di quel piccolo recinto dell’occidente ove storicamente sono nati i “diritti dell’uomo”.
    Certo, sulla genesi della Dichiarazione di Algeri ebbe grande influenza quel laboratorio collettivo di analisi e di riflessione che furono le tre sessioni del Tribunale Russell II sull’America Latina, organizzate e presiedute da Lelio Basso tra il 1974 e il 1976. In quel laboratorio la difesa dei diritti umani venne a depurarsi dei connotati di astratto idealismo che così spesso l’hanno segnata, e si ascrisse sul terreno delle condizioni storiche e materiali che possono renderla possibile e vincente. Per tale via, apparve sempre più evidente che l’uomo -la cui dignità si tratta di tutelare- non è un soggetto avulso da un contesto storico-sociale, spoglio di ogni dimensione collettiva, ma è invece individualità e soggettività determinate nell’ambito di un tessuto sociale, fatto di lingua, cultura, storia, rapporti di produzione ecc., e che gli attentati reiterati e sistematici alla soggettività umana sono sempre l’indice di un attentato alla dimensione collettiva nella quale il soggetto s’iscrive, sì che la difesa di questa costituisce il passaggio obbligato per ogni azione in difesa della dignità dell’uomo.
    Ma a questa rifondazione della difesa della dignità della persona spingevano anche le grandi trasformazioni che -a partire dalla fine del secondo conflitto- hanno investito la scena mondiale, rendendo sempre meno sostenibili assetti che, esplicitamente o implicitamente, presuppongono l’ineguaglianza degli uomini. Non è un caso che una forte esigenza di universalità si esprima già nella Carta delle Nazioni Unite, con particolare riferimento al bene della pace, e, appena qualche anno più tardi, nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Questa aspirazione alla fondazione di valori e regole universali è stata largamente frustrata nei decenni successivi, ma non per questo si è attenuata; anzi! I pericoli crescenti che minacciano la pace e la crisi del sistema di governo mondiale bipolare, nel cui ambito avrebbero dovuto realizzarsi le aspirazioni universalistiche, hanno solo evidenziato la strutturale inadeguatezza della costituzione materiale dell’ordine internazionale rispetto ai fini universali della pace e della tutela della dignità umana.
    A fronte di tale inadeguatezza, Lelio Basso avvertì con lucida chiaroveggenza che la stessa dimensione collettiva dell’uomo -nella quale soltanto può radicarsi il valore storico-naturale della persona- non può essere salvaguardata se non attraverso la fondazione di nuove regole e di un nuovo ordine nelle relazioni internazionali.
    È vero che l’impresa risente del clima internazionale che segnava la metà degli anni settanta: il processo di distensione in corso, la vittoria del Vietnam, l’accelerazione e pressoché definitiva conclusione del processo di decolonizzazione. Tutti fattori di speranza. E, tuttavia, i promotori della Dichiarazione di Algeri non si nascondevano le ombre: “Viviamo tempi di grandi speranze, ma anche di profonde inquietudini”, così inizia il preambolo della Dichiarazione.
    Oggi, a dieci anni di distanza, è possibile avanzare un primo giudizio sull’impresa avviata da Lelio Basso, e proseguita, dopo la sua morte, dalle istituzioni che egli creò per sostenerla? Lo stato del mondo si presenta assai più cupo che dieci anni or sono. Molte delle speranze di allora si sono logorate ovvero si sono scontrate, uscendone perdenti, con la dura logica dei meccanismi di dominio e di guerra iscritti nella costituzione materiale dell’ordine internazionale Al tempo stesso, però, la consapevolezza dell’irrimediabile inadeguatezza di tale ordine a fronte dei drammatici problemi che l’umanità si trova dinanzi è entrata nella coscienza di milioni di donne e di uomini, anche nelle aree più sviluppate del pianeta; e questa presa di coscienza preme, assai più che ieri, sugli assetti di potere, sulle istituzioni, sui governi. Una consapevolezza più lucida, più problematica, meno incline alle emotive scorciatoie della “rivoluzione” ma più risoluta ed estesa, mette in questione l’idea lineare di progresso, s’interroga sui rapporti popolo-Stato e sulla crisi della formazione dello Stato-nazione, all’interno della quale la democrazia moderna è nata.
    Comincia a diventare senso comune ciò che già da tempo gli spiriti più lucidi hanno visto, e cioè che l’umanità è giunta a una soglia ove emergono alcuni problemi cruciali che investono direttamente ogni persona, quale che sia la sua nazionalità, la sua collocazione sociale, il sito che abita sul pianeta. Questi problemi comuni (rischio di conflitto nucleare, protezione dell’ecosistema terrestre, rapporto con le risorse naturali, controllo della tecnica, ecc.) esigono una risposta comune e pertanto fondano, nella concretezza della dimensione umana, il bisogno di una nuova universalità al posto degli astratti modelli, uniformizzanti ed egemonizzanti, sinora proposti (l’Uomo, inteso come astrazione o come estrapolazione di un processo storico particolare svoltosi in Occidente; il progresso, inteso come industrialismo produttivistico, ecc.). Miti siffatti tendevano in realtà a imporre a tutti i popoli il medesimo modello, la medesima concezione della storia, e in definitiva una sola cultura, negando la possibilità di sperimentare la storia e cancellando le differenze, la grande varietà di situazioni storiche e culturali, le specificità. Da qui il loro insuccesso, in un mondo che si è rimpicciolito, certo, ma che al tempo stesso conosce l’esplodere delle soggettività, la rivendicazione d’identità e di autonomia.
    Costruire una nuova universalità partendo dalle differenze è il difficile compito che oggi gli uomini si trovano ad affrontare. A questo compito la Dichiarazione di Algeri può offrire un contributo di metodo. Questo scarno documento, infatti, enuncia in poche decine di disposizioni i beni fondamentali che dovrebbero essere assicurati a ogni popolo e a ogni collettività e la cui effettiva garanzia dovrebbe funzionare come momento di verifica empirica della validità delle soluzioni o dei progetti via via proposti o messi in opera. Le strade da intraprendere non vengono ipotecate, ma in relazione a esse si fonda una forte esigenza di controllo, di adeguatezza, del quale si forniscono alcuni parametri desunti dall’esperienza di crisi o drammi collettivi e pertanto legittimati dalla storia. La ricerca resta aperta, ma si arricchisce di un’indicazione essenziale, di un inizio di articolazione dell’esigenza che il nuovo ordine si costruisce a partire dalla concretezza della condizione umana e dei suoi bisogni.
    In questa difficile fase storica, non è poco.

    Senese, Salvatore
    in: Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos, n.ro 8 (ottobre 1986)

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