Alberto Castagnola, Cecilia Chiovini
in Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos, n.ro 5 (novembre 1984)
Discutendo nel direttivo nazionale della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli delle ragioni che ci avevano spinto a organizzare il convegno sui diritti dei popoli e la cooperazione, eravamo partiti dal domandarci se la Lega, proiettata al sostegno dei diritti dei popoli, non avesse bisogno di seguire l’evoluzione della storia dei popoli, da popoli oppressi a popoli liberati, avendo dinnanzi a sé tutta la problematica dell’edificazione di una economia nazionale sottratta al dominio economico dei paesi ex-colonizzatori e capace di elevare il livello di vita delle popolazioni. Nel dare una risposta affermativa si attribuiva anche a questo compito un suo valore politico, quello, cioè, di una riflessione sull’insieme delle problematiche dei paesi di recente e vecchia indipendenza, processo non certo scontato e indolore, ma inevitabile punto di arrivo della storia dei popoli che oggi viceversa si interrogano sulla seconda fase, quella decisiva per l’affermazione dei più complessivi valori di indipendenza, e cioè quella che permette l’effettiva autonomia di un popolo, la sua capacità di presentarsi sulla scena mondiale quale portatore di valori propri, misurati non sul carattere aggressivo ed egemonico della propria immagine, ma sui livelli di civiltà delle popolazioni.
Quando parliamo di livelli di civiltà non ci riferiamo solo agli aspetti qualitativi (analfabetismo, mortalità infantile ecc., che ne sono aspetti importanti), ma al modo con cui quei livelli di civiltà sono raggiunti e quindi quale tipo di rapporto si è instaurato tra lo Stato e la società civile nella difficile strada della industrializzazione dei paesi in via di sviluppo.
Questo momento politico è stato acutamente colto durante la fase del convegno, con la presenza ai lavori non solo di esperti della cooperazione, organismi non governativi, organizzazioni di studio, considerati tutti addetti ai lavori, ma anche di numerose rappresentanze di organizzazioni straniere, sindacati, partiti politici della sinistra, movimenti di liberazione e solidarietà con i paesi del Terzo Mondo, istituzioni internazionali, il mondo universitario, nonché la quasi totalità delle organizzazioni della Lega presenti sul territorio nazionale. Intendevamo partire da presupposti politici ben precisi, e cioè ricercare nel carattere della Lega, nella sua linea politica, nei suoi modi di operare, le motivazioni culturali e politiche rispetto al modo di rapportarsi alla tematica della cooperazione, in un’analisi dell’efficacia dei diritti dei popoli disegnata nella Carta di Algeri.
La relazione di Senese e le numerose comunicazioni scritte presentate, la tavola rotonda e i lavori di gruppo, hanno risposto positivamente al non certo facile compito di confronto di esperienze e sensibilità cosi diverse presenti al convegno? Avanziamo una risposta affermativa, anche se il convegno ha in un certo senso incanalato un dibattito, rappresentandone un momento importante di riflessione, che dovrà proseguire nei mesi futuri.
L’obiettivo che ci eravamo posti era esaminare gli aspetti caratterizzanti la cooperazione e perciò quali priorità di scelte economiche, che tipo di interventi, in che modo vengono eseguiti, e cioè chi sono i soggetti e gli oggetti della cooperazione, e infine quali i modelli culturali a cui si ispirano, quali processi determinano il livello di condizioni materiali, culturali ecc.
Non sarà mai detto a sufficienza che non necessariamente l’industrializzazione del Terzo Mondo, sia essa pubblica o privata, produce le forze necessarie alla sua trasformazione e al suo orientamento a vantaggio dei popoli. Molto dipende da chi sono gli oggetti e i soggetti della cooperazione, quali obiettivi si vogliono perseguire e il modo con cui si opera.
Vale a dire che lo stesso protagonismo dei popoli non è solo uno slogan politico o un’utopia, ma una realtà in atto che occorre valorizzare anche per trovare soluzioni ai problemi di tutti (Nord e Sud insieme). È questa la ragione per la quale abbiamo parlato di rilettura della Carta di Algeri, partendo dagli articoli 1 e 2 (diritto di ogni popolo a esistere, rispetto dell’identità nazionale e culturale); si trattava quindi di esaminare quali logiche sono ancora predominanti nei rapporti di cooperazione.
C’è un Nord che tende a riprodurre nuovi modelli di neocolonialismo economico e culturale e un Sud stretto nei condizionamenti della logica della divisione del mondo in blocchi e nella estrema difficoltà di “pesare” nelle varie centrali economiche e sulle varie questioni economiche (Fondo Monetario, prezzi delle materie prime ecc.). Giustamente nella Carta di Algeri, agli articoli 8, 9, 10, 11, 12, vi è la riaffermazione dei presupposti della “cooperazione come interesse reciproco e non di una sola parte”.
Forese, nella sua relazione a questo proposito, molto acutamente rilevava che la cooperazione, nel modo in cui è stata praticata, aggravava il problema del Sud del mondo. Il nuovo ordine economico internazionale non è dietro l’angolo. Occorre battere altre strade, partire dal presupposto che lo sviluppo deve essere specifico, diverso da paese a paese, una progressiva liberazione dell’uomo dai bisogni primordiali e una capacità di controllo della natura.
Una nuova prospettiva si pone lo sviluppo “autocentrato”. Innanzitutto si dovrà assicurare l’autosufficienza alimentare, e il superamento della condizione di assistiti: si dovrà ricostruire il tessuto e l’identità collettiva, l’autoriconoscimento del soggetto collettivo. Questo significa allora parlare certo di interventi, ma tenere anche conto che è comunque l’elemento umano che deve guidare gli strumenti. Ed è qui che la cooperazione si incontra con i diritti dei popoli, con la dichiarazione di Algeri.
Prendiamo alcuni degli articoli significativi in questo contesto e vediamo le conseguenze teorico-pratiche degli assunti della Carta. Quando l’articolo 1 richiama il diritto all’esistenza di un popolo, il primo dato che emerge è che il diritto di alimentarsi da sé, essere posto in condizione di vivere non da assistito, non da emarginato, da parassita, è il senso primo di questa esistenza. Un popolo del tutto dipendente tende a scomparire come popolo, tende a non esistere.
Ma anche l’articolo 2 che riafferma il diritto a una propria identità nazionale e culturale fa pensare che la fornitura, l’imposizione di tecnologie che disgreghino i modi di vita, la cultura, il sistema di valori del popolo che viene investito, si pone nella direzione della distruzione progressiva della stessa coscienza collettiva.
È il caso emblematico di un errato impatto degli interventi di aiuto verso le donne, che ha comportato per le africane una indubbia diminuzione del loro status sociale come conseguenza del rifarsi a modelli di industrializzazione occidentale che hanno espropriato il tradizionale lavoro agricolo femminile, come giustamente ha rilevato nella sua comunicazione Cinzia Giudici.
L’articolo 11 (il diritto di scegliere autonomamente il proprio sistema economico-sociale) evoca non solo esempi di soggetti-popoli sottoposti alla devastazione dell’imperialismo imposto dalla logica capitalistica, ma anche altre rotture altrettanto devastanti, come quelle prodotte dall’invasione dell’Afghanistan giustificata dall’esigenza di abbattere una “cultura”, quella afghana, definita dagli invasori “arcaica e arretrata”.
E i riferimenti possono moltiplicarsi: articolo 13, difesa della lingua; articolo 14, difesa delle ricchezze artistiche e storiche (e qui bisogna dire che lo sconvolgimento delle abitudini mentali imposte dalle pratiche di “informazione-formazione” costituisce un esempio di grande violenza culturale); articolo 17, che riafferma il principio democratico e richiama alla pratica delle decisioni con la partecipazione di tutti gli interlocutori (e quante volte invece la cooperazione appare funzionale a pochi e in definitiva al mantenimento di regimi dittatoriali, sino al caso degli aiuti allo sviluppo destinati all’Etiopia convertiti in armi usate per stroncare la lotta del popolo eritreo che rivendica la propria autodeterminazione).
Più difficile è tracciare un quadro delle indicazioni emerse nel corso dei lavori, anche perché, se l’obiettivo di fondo dell’iniziativa era quello di mettere in discussione il reale apporto dato dagli aiuti internazionali allo sviluppo, la stessa complessità del problema rendeva impossibile giungere a delle conclusioni organiche nel breve giro di poche ore di discussione. Tuttavia, la sensibilità dei partecipanti al problema è emersa con estrema chiarezza e il materiale documentario distribuito si è certo aggiunto ad analisi e dibattiti già da tempo avviati, specie presso gli organismi che operano direttamente nel settore della cooperazione tecnica. È peraltro possibile, tenendo conto in particolare dei risultati ottenuti nell’ambito dei gruppi di lavoro, richiamare alcuni degli aspetti più approfonditi o sottolineati, sia in relazione al tipo di “sviluppo” perseguito , che ai limiti e agli errori di alcune esperienze di cooperazione internazionale. In effetti, il primo dei gruppi, che doveva approfondire criteri ispiratori e contenuti delle politiche di cooperazione in corso di attuazione, ha cercato innanzitutto di tracciare un quadro concettuale della cooperazione rispondendo alla domanda: quale cooperazione per quale sviluppo?
I partecipanti al dibattito hanno in sostanza nuovamente respinta la ipotesi di uno sviluppo basato sull’esportazione pura e semplice dei modelli di sviluppo dei paesi industrializzati, che hanno come parametro di valutazione l’aumento del prodotto nazionale lordo senza alcuna preoccupazione per la destinazione della nuova ricchezza prodotta, la cui distribuzione viene affidata ai meccanismi spontanei del mercato. Perplessità sono state espresse sulla efficacia della proposta contenuta nel rapporto Brandt di un più massiccio trasferimento di mezzi dai paesi più sviluppati ai paesi in via di sviluppo; sulla interdipendenza esistente fra i due gruppi di paesi e sul presunto interesse dei paesi ricchi a promuovere lo sviluppo dei paesi poveri come condizione per risanare la loro stessa economia. Questa ipotesi infatti, nel suo insieme, si è rivelata troppo ottimistica e i paesi industrializzati non hanno mostrato alcun interesse allo sviluppo reale dei paesi del Terzo Mondo, persistendo nel loro prevalente comportamento tradizionale di sfruttamento. Generale assenso tra i partecipanti ha riscosso invece l’ipotesi di un modello di sviluppo endogeno basato sul soddisfacimento prioritario dei bisogni. È interessante rilevare che, malgrado i limiti di tempo, uno sforzo è stato fatto per definire con precisione questo modello di sviluppo onde evitare i rischi di una concezione autarchica o riduttiva dello sviluppo. Questo modello di sviluppo deve essere:
1) basato sulla soddisfazione dei bisogni fondamentali dell’uomo (di tutto l’uomo e di tutti gli uomini); i bisogni sono quelli naturali, ma anche quelli spirituali, politico-culturali, ecc.
2) endogeno, corrispondente cioè alle esigenze nate dalla specificità culturale che deve nascere dall’interno e ricevere dall’esterno apporti selezionati criticamente. Ci si sviluppa, non si è sviluppati.
3) autonomo, che fa affidamento sulle proprie forze e,utilizza in primo luogo le proprie risorse e prende da sé le sue decisioni in funzione della sua realtà, del suo bisogno.
4) ecologico, in armonia con l’ambiente e la natura con l’intento di farne buon uso e di lasciarli intatti alle generazioni future.
5) capace di trasformazioni strutturali.
Secondo i partecipanti, questo modello di sviluppo ha come sua struttura portante una categoria che è al tempo stesso politica e morale, la difesa degli uomini e dei popoli. In questo senso la lotta contro la fame è la priorità delle priorità della cooperazione, in quanto difesa del fondamentale diritto alla vita.
È stata invece rifiutala unanimemente l’ipotesi di un intervento specifico per salvare un numero definito di persone (due, tre, o cinque milioni) in un tempo definito (un anno) costituendo un organo ad hoc (Alto Commissariato). Questa ipotesi, che corrisponde a un’impostazione culturale di tipo paternalistico, non può sfuggire alla logica di un massiccio aiuto alimentare, con gravi conseguenze sulle agricolture locali, disarticola le strutture preposte alla cooperazione e crea una divaricazione tra l’intervento straordinario e quello strutturale.
I membri del gruppo, quindi, hanno espresso l’auspicio che gli interventi relativi alla lotta contro la fame siano ricondotti all’interno delle strutture della cooperazione e siano attuati attraverso progetti integrati, congiunturali e strutturali al tempo stesso.
Sempre in base ai risultati del dibattito svoltosi all’interno del primo gruppo, possono essere già riportate alcune valutazioni, relative a singoli strumenti di interventi effettuati nell’ambito della cooperazione internazionale. l partecipanti, ad esempio, hanno affermato che, in base alle esperienze fatte, i doni si rivelano più congeniali al modello sopra delineato rispetto al crediti di aiuto. Tali crediti, infatti, da una parte aggravano la situazione debitoria dei paesi in via di sviluppo, dall’altra vengono utilizzati insieme ai crediti finanziari come incentivi alla penetrazione commerciale italiana nei paesi del Terzo Mondo. Pur riconoscendo la grande importanza per l’Italia di favorire le proprie esportazioni, si ritiene che per tale scopo devono essere previsti strumenti ad hoc e che la cooperazione non debba essere in nessun caso condizionata dalle esigenze commerciali del nostro paese.
Per un particolare tipo di esportazione, quello delle armi, il gruppo di lavoro ha reclamato un esplicito e rigoroso divieto quando esso interessa, in qualsiasi modo e in qualsiasi misura, i fondi della cooperazione. Particolare attenzione è stata dedicata al problema dell’indebitamento, a causa delle dimensioni da esso assunto e dei pericoli che esso rappresenta per il sistema finanziario internazionale. La necessità di risolvere questo problema crea infatti il rischio che le risorse destinate alla cooperazione siano invece destinate alla soluzione del problema dell’indebitamento di un numero limitato di paesi meno poveri, riducendo o prosciugando i flussi di aiuto ai paesi più poveri.
Gli altri due gruppi di lavoro, che come temi in discussione avevano scelto gli interventi nei settori produttivi, con particolare riguardo a quello agricolo, e le iniziative in campo sociale, hanno evidenziato, dalle attività finora svolte nell’ambito della cooperazione internazionale, una serie di aspetti che costituivano, insieme, delle valutazioni critiche delle esperienze del passato e delle indicazioni sulle trasformazioni in atto e sui nuovi obiettivi da raggiungere. Seguendo l’ordine dei documenti conclusivi stilati dai relatori dei gruppi di lavoro, si possono qui ricordare alcune considerazioni generali sulla natura degli interventi. Si può ritenere, in particolare, che sia in corso una loro trasformazione sostanziale in direzione di una partecipazione attiva e responsabile delle comunità rurali, e ciò sia da parte dei paesi interessati che delle organizzazioni; questa tendenza è presente anche in Italia, per quel che riguarda le iniziative attuate nel Sahel.
In prospettiva dovrebbero essere combinati i micro e i macro-progetti, con la collaborazione attiva dei villaggi, in vista di uno sviluppo autocentrato, mentre si dovrebbero moltiplicare i progetti integrati (ad esempio agronomici, zootecnici, sanitari). Ancora, secondo i partecipanti, è necessario tener sempre presente il fatto che una buona conoscenza della situazione agraria (conoscenza dei terreni, dei mezzi produttivi, del clima ecc.) è poco diffusa sia nel Nord che nel Sud del mondo; ciò rende necesaria la progettazione degli interventi in loco e sulla base di ampie e approfondite indagini, che richiedono a loro volta radicali modifiche nei criteri e nei metodi di finanziamento dei progetti.
Le carenze più rilevanti si riscontrano peraltro a monte, nelle attività di ricerca, nei centri universitari ecc., che dovrebbero quindi essere modificati e potenziati ai fini di un loro maggior contributo alla lotta contro il sottosviluppo.
Analoghe considerazioni sono state a più riprese svolte sul ruolo degli esperti, specie di quelli che operano nella cooperazione nel settore agricolo. Sono state evidenziate alcune carenze culturali degli “specialisti” (conseguenza diretta della inefficienza delle strutture formative), che hanno in molti casi la tendenza a esportare nei paesi sottosviluppati le debolezze culturali, la difficoltà a livello dei singoli esperti di rompere la catena delle menzogne pubbliche e delle verità private così diffuse nel settore, la rarità di esperienze di intervento che abbiano realmente valorizzato il “sapere” del mondo agricolo locale, facendo svolgere all’esperto esterno un ruolo essenziale nella individuazione dei problemi e delle loro possibili soluzioni, ma secondario e non dominante nella fase decisionale e realizzativa degli interventi.
Infine particolare rilievo hanno assunto i richiami ai meccanismi di valutazione dei risultati degli interventi, non solo a conclusione di ognuno di essi, ma anche e specialmente durante la fase di attuazione e a distanza di anni per evidenziare gli effetti di lungo periodo.
Oltre a questi elementi di maggior rilievo, le relazioni sui lavori dei gruppi hanno anche evidenziato obiettivi strumentali, parziali, ma di non trascurabile interesse: aumentare le occasioni di formazione di esperti e di giovani trainers; prevedere operativamente la preparazione di una serie di indicatori socio-sanitari da adottare come componenti della valutazione di quanto i macro-progetti cooperativi (produzione, economia ecc.) modifichino o condizionino il modello di sviluppo dei paesi, nel senso della “autonomia” o della “dipendenza”; costruire una “banca” di rapporti critici su progetti di cooperazione socio-sanitaria, che rappresenti un fondo comune agli organismi di volontariato e del MAE da utilizzare per la formazione e per la costruzione di profili “reali” dei paesi con cui si coopera; includere in questi “rapporti critici e valutativi” quello che si potrebbe richiedere ai “committenti”, così da avere anche il parere di coloro che hanno “ricevuto”; includere nella cooperazione, per essere efficaci nel rispetto dell’autonomia, non solo quanto riguarda i bisogni primari, ma anche le aree avanzate della ricerca; promuovere un confronto delle esperienze, dì intervento e di valutazione, con le ONG di altri paesi; favorire un allargamento molto intensivo della strategia dei “comandi” per esperti MAE, così da favorire la creazione di un pool di risorse effettivamente disponibili e competenti; gli organismi pubblici, nazionali e internazionali, dovrebbero moltiplicare gli sforzi per “capitalizzare” e trarre ogni possibile vantaggio di conoscenza dalle esperienze finora acquisite, specie da organismi di piccole dimensioni. Infine va ricordato che i partecipanti ai gruppi hanno più volte sottolineato due problemi cruciali: l’informazione e i controlli. Fondamentalmente è stata ribadita l’importanza dell’informazione, sia nei paesi industrializzati che nei paesi in via di sviluppo, con particolare riferimento a una informazione Sud-Sud che non dipenda dai mezzi di comunicazione del Nord. Per quanto riguarda i controlli, è stato suggerito, sul modello di quanto già stato effettuato in altri paesi, come il Canada, la creazione di strutture di base di controllo della attività svolta dagli organi pubblici preposti alla cooperazione.
In conclusione, il convegno ha certamente rappresentato un momento “alto” nella riflessione sulla attuale situazione dei paesi sottosviluppati, non tanto per la originalità degli aspetti sottolineati, quanto come fase iniziale di riflessione, in qualche caso in forma di autocritica costruttiva, sui problemi che si incontrano sul piano concreto e operativo della cooperazione. La documentazione di base che ha circolato durante l’incontro dovrebbe costituire un fattore di ulteriore stimolo all’analisi e alla revisione delle esperienze.
Tuttavia non si può certo dichiararsi completamente soddisfatti, poiché alcuni temi meritavano ben altri approfondimenti, mentre nuove strategie e metodi innovativi di intervento sono rimasti ancora troppo indefiniti. È invece sicuro che il convegno ha costituito un’occasione, uno stimolo, forse una provocazione, ad aprire un dibattito, a rimettere in discussione criteri e strumenti, a ricercare nuove vie, più efficaci, per affrontare problemi nuovi e vecchi, ma ancora drammatici, dei popoli del sottosviluppo.
in: Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos, n.ro 5 (novembre 1984)