Edmond Jouve
in Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos n.ro 4 (maggio 1984)
“Nel diritto internazionale, la mancata assistenza ai popoli in pericolo non è ancora un crimine. Ma è una colpa morale e politica che è già costata troppi morti e troppo dolore”. Per una volta, un capo di Stato difende la causa del popolo. 20 ottobre 1981, Città del Messico: François Mitterrand si rammarica che la comunità internazionale non sia in grado di garantire il rispetto dei loro diritti.
Tuttavia, sono state prese iniziative per colmare questa lacuna. Nel 1945-1946, i vincitori della Seconda guerra mondiale affidarono a due tribunali ad hoc – il Tribunale di Norimberga e quello di Tokyo – il compito di processare i principali criminali di guerra tedeschi e giapponesi. È stato aperto un “ciclo del futuro”. Jean Paul Sartre ce lo ricorderà quando verrà il momento dei tribunali d’opinione.
La guerra del Vietnam sarebbe stata il luogo di nascita del più grande di tutti. Un uomo avrebbe sostenuto la battaglia: il filosofo e matematico britannico Bertrand Russell. Insieme ad altri, creerà un Tribunale internazionale contro i crimini di guerra commessi in Vietnam. La sua opera raggiungerà la coscienza universale.
Il successo dell’impresa portò uno dei suoi più accaniti sostenitori, il senatore italiano Lelio Basso, a convocare un Tribunale Russell II dal 1973 al 1975.
Dovrà affrontare le violazioni dei diritti praticate dalle dittature dell’America Latina. Per giudicare le più evidenti violazioni dei diritti dei popoli di tutto il mondo, è stato necessario inventare altri mezzi.
Il Tribunale Permanente dei Popoli, creato a Bologna nel 1979, risponde a questa preoccupazione. Ha già tenuto dieci sessioni ed emesso due pareri consultivi e otto sentenze. Presieduto dal professor François Rigaux, conta cinque premi Nobel tra i suoi cinquantasette membri. Il Tribunale si pronuncia in diritto.
Basa le sue decisioni sugli strumenti giuridici delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali, ma anche su un testo specifico: la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, adottata il 4 luglio 1976 ad Algeri dalla conferenza internazionale convocata dalla Fondazione Lelio Basso.
Questo manifesto proclama, tra l’altro, che “tutti i popoli del mondo hanno un uguale diritto alla libertà, il diritto di essere liberi da interferenze straniere e di scegliere il governo di loro scelta, il diritto, se schiavizzati, di lottare per la loro liberazione, e il diritto di beneficiare, nella loro lotta, dell’assistenza di altri popoli”. Al Tribunale Permanente dei Popoli è stato affidato il compito di verificare se i diritti così riconosciuti ai popoli siano coerenti con l’esercizio di tali diritti.
Il Tribunale ascolta i cittadini stessi attraverso i loro rappresentanti. Pertanto, può essere presa in carico non solo dai tradizionali organismi governativi e internazionali, ma anche da un’organizzazione non governativa, da un movimento di liberazione nazionale, da un gruppo politico, da un sindacato o da un gruppo di individui.
Nel caso del Sahara occidentale (Bruxelles, 11 novembre 1979), la richiesta di parere proveniva dal Fronte Polisario. Nel caso dell’Eritrea (Milano, 26 maggio 1980), si trattava del Fronte di Liberazione Eritreo (ELF) e del Fronte Popolare di Liberazione Eritreo (EPFL). Nel caso di El Salvador (Città del Messico, 11 febbraio 1981), la denuncia è stata presentata dalla presidente della Commissione per i diritti umani di quel Paese, Marianella Garcia Villas, recentemente assassinata. Il ricorso relativo all’Afghanistan (Stoccolma, 3 maggio 1981) è stato presentato da personalità internazionali.
Il lavoro creativo
Nei quattro anni della sua esistenza, il Tribunale ha continuato a essere legalmente creativo. Ad esempio, ha applicato il diritto di libera determinazione, ma non ha voluto limitarlo al diritto di decolonizzazione. Nel caso dell’Argentina (Ginevra, 4 maggio 1980) si è dichiarato a favore dell’affermazione del “diritto all’autodeterminazione politica anche contro strutture statali oppressive”.
Nel modo più classico, ha ritenuto che il popolo Maubere fosse vittima del crimine di genocidio (Timor Est, Lisbona, 21 giugno 1980), ma nel caso di El Salvador si è discostata dalla Convenzione sulla prevenzione e la punizione del genocidio condannando il governo della giunta militare per aver tentato di “distruggere un gruppo di persone a causa delle loro opinioni o opposizioni politiche reali o potenziali”.
Discostandosi dall’articolo 2 § 4 della Carta delle Nazioni Unite, ma in linea con alcune delle sue risoluzioni, il Tribunale ha legittimato l’uso della forza. Come nel caso di El Salvador (“il popolo di El Salvador esercita legittimamente il diritto all’insurrezione”), il recente lodo sul Guatemala (Madrid, 31 gennaio 1983) afferma che il popolo di quel Paese “ha il diritto di esercitare tutte le forme di resistenza, compresa la lotta armata, attraverso le sue organizzazioni rappresentative”.
Il Tribunale non si limita a condannare le violazioni commesse dagli Stati. Nel caso delle Filippine e del popolo Bangsa Moro (Anversa, 3 novembre 1980), ha incolpato “un gruppo di multinazionali americane, giapponesi ed europee” per il loro ruolo nella violazione dei diritti sovrani dei popoli filippino e Bangsa Moro. Ha anche negato la legittimità del governo Marcos. Nel caso dello Zaire (Rotterdam, 2 settembre 1982), non ha esitato a condannare il presidente Mobutu.
Nasce così un diritto dei popoli. Il Tribunale Permanente dei Popoli sta contribuendo alla sua realizzazione. Ma questa nuova legge soffre delle rivalità che la oppongono allo Stato, in particolare al “nuovo” Stato. Quest’ultimo, troppo spesso frutto di un popolo che sbaglia, non facilita il suo compito.
Lo Stato e i suoi alti prelati cercano di contestare i tribunali d’opinione e i diritti delle persone che secernono. Contestano la loro legittimità in nome del principio sacrosanto ricordato a Sartre dal generale de Gaulle nel 1967: “Tutta la giustizia appartiene solo allo Stato”. L’obiettività dei tribunali d’opinione è messa in discussione anche dalla difficoltà di attuare i diritti della difesa.
Eppure, con difficoltà, ma sicuramente, il diritto dei popoli sta guadagnando terreno. Il Tribunale Permanente dei Popoli è emerso, nelle belle parole di Antonio Cassese, come “catalizzatore di opinioni”, ha offerto una piattaforma ai popoli. Ha iniziato a parlare alla coscienza umana universale e quest’ultima ha iniziato ad ascoltarla.
Fuori dalla clandestinità
Questo “emergere di una nuova coscienza del popolo” può avere un impatto anche sugli Stati stessi. Gli Stati africani ne hanno dato il miglior esempio adottando la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli a Nairobi nel giugno 1981. Anche l’Organizzazione dell’Unità Africana e la Sottocommissione delle Nazioni Unite per i diritti umani di Ginevra si sono avvalse del lavoro del Tribunale Permanente dei Popoli.
Sulle sue orme, o su quelle del Tribunale Russell, sono fiorite altre giurisdizioni. Lo scorso marzo, a Tokyo, un Tribunale Popolare Internazionale ha concentrato le sue indagini sull’invasione del Libano da parte di Israele. L’idea lanciata da Bertrand Russell nel 1966 si è quindi rivelata fruttuosa. A prescindere dalle loro goffaggini o ambiguità, questi tentativi stanno contribuendo a far uscire il concetto di persona dalla clandestinità in cui, troppo spesso, vogliamo confinarlo.
Quale miglior tributo se non che la dottrina giuridica sta iniziando a interessarsene e a riconoscerlo? Uno dei suoi membri più eminenti – René-Jean Dupuy, professore al Collège de France – ha osservato nel suo Corso generale di diritto internazionale all’Aia del 1981 che il popolo è “in procinto di diventare – se non già divenuto, un “soggetto” di diritto internazionale (espressione classica che non si adatta bene a un fenomeno di liberazione), diciamo piuttosto un agente del diritto delle persone”. Il popolo non è più del tutto non amato.
in: Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos n.ro 4 (maggio 1984)