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Le nuove frontiere dei diritti dei popoli

    Giacinto Andriani

    in Peuples / Popoli / Peoples / Pueblos, n.ro 10 (giugno 1987)

    Alcune delle vicende che hanno caratterizzato la politica internazionale degli ultimi anni, come ad esempio il caso del Sudafrica oppure quello dei palestinesi, hanno portato all’acquisizione nel linguaggio politico e giornalistico del termine «popolo» o del concetto di «autodeterminazione dei popoli», utilizzati anche a supporto di scelte di politica estera del nostro come di altri paesi. L’episodicità di questi richiami però non rende giustizia al contenuto di tali termini e soprattutto alle profonde implicazioni che una politica a favore dell’autodeterminazione comporta rispetto alla concezione corrente della politica, del diritto, dell’economia e dei rapporti fra gli Stati.
    In Francia, una delle principali case editrici universitarie ha pubblicato un volume, di una collana a larga diffusione, sul tema del diritto dei popoli (1). Periodici di notevole prestigio internazionale (2) hanno dedicato dossier al medesimo tema. Nella storia dell’ONU, attraverso un percorso di decenni, il ricorso all’autodeterminazione dei popoli come fondamento delle proprie scelte e indicazioni rivolte alla comunità internazionale si è fatto sempre più chiaro e insistente e a esse si sono adeguate le posizioni di numerosi altri organismi internazionali. Gli esempi potrebbero continuare a dimostrazione del fatto che il diritto dei popoli, anche in conseguenza dell’emergenza di nuovi soggetti politici che hanno determinato la storia della decolonizzazione e più in generale la lotta per l’emancipazione dalla dominazione e dalla dipendenza, è sempre più acquisito e riconosciuto. Il rischio di questa situazione è che, cosi come è successo per i diritti umani, la proclamazione del diritto dei popoli diventi un fatto rituale che ne svuota la portata e le potenzialità, lo trasforma in uno strumento talmente diffuso nel linguaggio o nelle accademie da perdere la propria carica critica e diventare innocuo dal punto di vista operativo.

    La conferenza di Atene
    A dieci anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dei popoli fatta ad Algeri nel 1976, si è svolta ad Atene una conferenza internazionale organizzata dalla Fondazione Basso e dalla Lega per i diritti e la liberazione dei popoli per un bilancio e aprire una riflessione sulle prospettive del diritto dei popoli, proprio nella direzione di dare un contenuto e un senso non meramente rituale all’affermazione di quel principio, così come è venuto sviluppandosi nell’ipotesi del lavoro avviata da Lelio Basso. La Dichiarazione d’Algeri è stata da un lato il punto di arrivo del lavoro del Tribunale Russell che, partendo dal presupposto che vi era una carenza del diritto a tutela degli interessi non solo individuali ma anche collettivi dei casi affrontati, hanno svolto un lavoro di denuncia all’opinione pubblica delle cause che portavano a tali violazioni. Le carenze del diritto venivano soprattutto rimarcate rispetto al fatto che a fianco delle entità statali occorreva sempre più riconoscere i popoli come soggetti di diritto internazionale.
    Questa ipotesi si è trasformata in punto di potenza di una ricerca e di un impegno politico a fianco delle lotte di liberazione, che ha avuto come primo sbocco la dichiarazione universale dei diritti dei popoli. Il valore di questa dichiarazione sta nel fatto che ha tentato di dare espressione alle migliori energie sviluppatesi nei processi di liberazione del Terzo Mondo e specificato una serie di diritti importanti per il genere umano e tali da essere una indicazione per la realizzazione di diversi rapporti internazionali.
    Cosa si intende per popoli e per diritto dei popoli? Che differenza c’è con la nazione e lo Stato e quali relazioni intercorrono fra essi?
    Il filosofo cileno José Echeverría (3) così si esprime: «La nazione come il popolo sono delle comunità umane caratterizzate dalla partecipazione a uno stesso passato e alla volontà di costruirsi un futuro. Nel caso della nazione l’accento è posto sull’origine comune, nel caso del popolo è posto sulla volontà di un futuro. La legittimazione per la nazione è retrospettiva, per il popolo è in prospettiva… La nazione tende a riprodursi, a ripetere nel presente il suo passato. Viceversa il popolo tende al cambiamento. Tende a inventarsi un destino che sceglie liberamente e afferma in seguito nelle sue decisioni. Così è al popolo, e non alla nazione, che si attribuisce il diritto alla libera determinazione di sé stesso, in quanto si suppone che la nazione è già «determinata». Di fronte al diritto di sovranità, di cui la nazione è titolare, il popolo rivendica il diritto alla sovranità. Ancora più pregante da un punto di vista politico e giuridico è l’affermazione di François Rigaux (4), presidente del Tribunale dei Popoli: «Il popolo è sufficiente concepirlo come il luogo collettivo nel quale ciascun essere umano è nato ed è stato socializzato attraverso l’apprendimento di una lingua, l’iniziazione a una cultura, l’adozione di credenze e divieti, l’inserimento in una certa struttura economica, la condivisione del territorio. Il popolo non si confonde con lo Stato e bisogna respingere l’identificazione del popolo e dello Stato con lo stesso vigore con cui si condanna l’identificazione tra Stato e diritto. Sul territorio di ciascuno Stato vivono dei popoli — o se si preferisce dei gruppi sociali — che dei tratti collettivi distinguono gli uni dagli altri. Riconoscere i diritti fondamentali di queste collettività è l’oggetto essenziale del diritto dei popoli e, in questo senso, completa e perfeziona la dottrina tradizionale dei diritti dell’uomo». Infine altrettanto significativo quanto afferma Salvatore Senese (5): «Si potrebbe definire il diritto dei popoli come un progetto politico espresso in forme giuridiche chieste a prestito dal diritto internazionale e aventi una vocazione all’effettività e all’universalità. Un tentativo di rifondare il diritto internazionale sulla nuova universalità di ciò che si potrebbe chiamare il “nocciolo duro’’ dei diritti dell’uomo, liberarli da ogni ipoteca ideologica e da ogni impresa egemonica. Un sistema prescrittivo, dunque, che pone in primo piano la nozione di popolo come luogo dove si costruisce la libertà nel contesto di una realtà specifica e che impone di perseguire la liberazione dell’uomo a partire dalla varietà, dalle differenze, per trovare nelle particolarità di ciascuna collettività i termini e le condizioni della sua liberazione… Questo progetto implica un rovesciamento della concettualizzazione (e della distribuzione dei poteri-competenze) dominante nel diritto positivo internazionale (ma anche a un certo livello nel diritto positivo interno) che pone lo Stato come soggetto quasi esclusivo, e in ogni caso privilegiato, dell’ordine giuridico internazionale e come entità trascendente il popolo. Secondo il diritto dei popoli, viceversa, gli Stati essendo delle astrazioni, non possono legittimarsi nella misura in cui sono gli strumenti dell’organizzazione delle collettività umane, dunque dei popoli che, pertanto, devono essere riconosciuti come i veri soggetti di diritto. Vale a dire che la sola fonte di legittimità che il diritto internazionale, come ugualmente del diritto interno, devono riconoscere agli Stati è la sovranità popolare. Il diritto dei popoli riporta dunque l’ordine giuridico internazionale e l’ordine giuridico interno alla stessa legittimità; ma nello stesso tempo relativizza gli Stati, fonda una dialettica popolo/Stato con tutte le conseguenze che ciò comporta in termini di distribuzione del potere e di riorganizzazione delle relazioni politiche ».

    L’evoluzione del diritto dei popoli
    Il diritto dei popoli deve naturalmente evolversi con il modificarsi delle situazioni storiche. Da questo punto di vista è necessario verificare a dieci anni dalla Dichiarazione di Algeri se e come può essere uno strumento valido di intervento a sostegno dei processi di liberazione; se e come è venuto arricchendosi di significati mano a mano che si modificava la realtà internazionale. Per fare ciò richiamiamo in sintesi i principali contenuti di questo documento.
    La prima sezione delle Carta d’Algeri riguarda il diritto all’esistenza. Per esistenza non ci si riferisce solo alla sopravvivenza biologica degli individui che compongono un popolo, ma «qualifica anche i dati culturali di relazioni collettive. All’esistenza di un popolo appartengono necessariamente i mezzi di riproduzione sociale grazie ai quali le generazioni successive si trasmettono un patrimonio ancestrale, con l’inevitabile parte di ritocchi, modificazioni, alterazioni» (6). Il diritto all’esistenza dopo essere stato una conquista per i popoli sottomessi al dominio coloniale, non è detto che si esaurisca con la formazione di uno Stato.
    In una seconda fase si pone il problema di «come all’interno delle frontiere statali garantire ai popoli il godimento effettivo dei loro diritti». L’indipendenza e la sovranità non garantiscono di per sé l’esistenza di un popolo. A titolo di esempio basti pensare al fenomeno delle migrazioni internazionali dei lavoratori che costringono milioni di persone ad allontanarsi dal proprio territorio portando all’alterazione del proprio stato socio-culturale e a vivere in maniera precaria su un altro territorio. Alle migrazioni causate da motivi economici sotto la spinta di soddisfare i bisogni essenziali dell’esistenza, vanno aggiunti coloro che sono costretti a lasciare il proprio paese per motivi politici o in ragione di discriminazioni collettive, i cosiddetti «rifugiati». Infine il diritto all’esistenza oggi non si può ancora ritenere acquisito finché problemi come la fame e la malnutrizione, la minaccia dello sterminio attraverso l’arma nucleare e la scelta di una propria strada verso la modernità mettono in crisi l’esistenza di un popolo come entità collettiva. L’aspetto della modernità riferito a un modello superiore offerto dall’occidente agli altri popoli pone in risalto anche gli aspetti culturali al diritto all’esistenza.
    La seconda sezione della Carta d’Algeri è dedicata all’autodeterminazione politica, da distinguere nei suoi aspetti esterni e interni. Il problema che viene posto è che nonostante l’affrancamento dalla dominazione coloniale straniera, l’effettivo esercizio del diritto all’autodeterminazione politica resterà minacciato dalle ingerenze straniere o esterne. Su questo fronte occorre mettere in risalto la debolezza dell’attuale diritto internazionale. Il semplice divieto posto dall’ONU al ricorso alla minaccia e alla forza nei rapporti fra Stati non è sufficiente. «Affinché i popoli esercitino effettivamente il loro diritto all’autodeterminazione politica dopo essersi costituiti in Stati indipendenti, è essenziale precisare il contenuto delle norme internazionali relative all’aggressione e rafforzare le istituzioni internazionali, soprattutto nelle loro branche giuridiche. Le forme economiche di aggressione e di intervento meritano anche una attenzione particolare. Uno degli obiettivi del diritto dei popoli è di offrire un modello atto a vincere la paralisi delle istituzioni interstatali, simulando quale dovrebbe essere il funzionamento corretto di esse».
    Strettamente collegati al precedente sono i diritti economici dei popoli, che costituiscono la terza sezione della Carta d’Algeri. Il controllo delle risorse naturali, la partecipazione al progresso tecnico e scientifico, una giusta remunerazione del lavoro e lo stabilire scambi internazionali a condizione eguali ed eque, costituiscono i punti qualificanti del diritto di ogni popolo a scegliersi un sistema economico e sociale. Oltre ai poteri economici internazionali, oggi la formazione di relazioni strutturali di indebitamento costituisce uno dei principali ostacoli all’affermazione di questi diritti.
    Lo sfruttamento delle risorse materiali, umane e naturali dei popoli dominati si è accompagnato al saccheggio e alla spoliazione dei loro beni culturali. L’affermazione del diritto alla cultura, nella quarta sezione della Dichiarazione d’Algeri, si scontra con fenomeni caratteristici della società contemporanea. «La potenza dei mezzi di comunicazione di massa e la concentrazione del potere che li anima costituiscono un pericolo attuale, più pernicioso in quanto meno visibile del saccheggio delle opere d’arte… Nel corso degli ultimi anni numerosi lavori hanno denunciato in Europa e negli Stati Uniti il pericolo a cui l’informatica espone la vita privata. Non solo l’informatica squilibra, a favore della potenza statale, il rapporto di forza tra lo Stato e i suoi cittadini, ma la stessa potenza statale è minacciata dai poteri economici privati che concepiscono e mettono in opera lo strumento informatico. Il pericolo è particolarmente significativo nei paesi, che sono i più numerosi, che importano tecnologia che non possiedono. Alla stessa maniera, la concentrazione dei mezzi di comunicazione di massa e l’unificazione di modelli culturali, di opinioni, di mode, di bisogni di consumo che tendono a instaurare sovvertono le culture tradizionali». L’esercizio effettivo del diritto all’autodeterminazione politica è inseparabile dalla nascita di una cultura propria che arrivi a conciliare tradizione e progresso.
    Nella quinta sezione si parla di diritto all’ambiente e alle risorse comuni. Tragedie come quelle di Bhopal mettono in risalto le responsabilità dei poteri economici privati e i rischi di collusione fra gli Stati a spese dei popoli colpiti da tali incidenti. Su questo terreno, come su quello del disarmo, bisogna «incoraggiare delle nuove solidarietà tra alcuni movimenti attivi soprattutto nei paesi industrializzati e la volontà di emancipazione dei popoli del Terzo Mondo» in quanto non si può accettare che i paesi dominanti esportino le loro guerre e il loro inquinamento.
    L’ultimo problema che affronta la Carta d’Algeri riguarda i diritti delle minoranze, sforzandosi di «tenere in equilibrio due obiettivi che rischiano di essere contraddittori: da una parte la necessità di preservare l’integrità territoriale e una forma di unità politica dello Stato e, dall’altra, il rispetto dei diritti fondamentali dei popoli che costituiscono una minoranza all’interno di uno Stato». Il problema delle minoranze, o meglio della presenza di popoli diversi che vivono nello stesso Stato, attraversa la quasi totalità degli Stati contemporanei. Rispetto a esso, il diritto dei popoli nell’attuale stato delle relazioni internazionali, più che incoraggiare una politica di secessione, «propone piuttosto una concezione differente del ruolo dello Stato. Le forme tradizionali di Stato nazionale unitario sono state troppo spesso l’espressione di una classe o di un gruppo sociale portato al potere che hanno confiscato a loro vantaggio le istituzioni statali. Riconoscere i diritti del popolo contro lo Stato è anche accettare, quando si verifica, la pluralità dei popoli all’interno dello Stato, cosa che permette alle collettività infra-statali di esercitare un controllo democratico del potere dello Stato».

    Oggi, aumentano le preoccupazioni
    L’inizio della Carta d’Algeri diceva: «viviamo dei tempi di grandi speranze, ma anche di profonde preoccupazioni». In questi dieci anni forse sono aumentate le preoccupazioni più che le speranze. Dei vari aspetti che hanno influito sull’evoluzione della politica internazionale occorre citare alcuni che hanno avuto un peso determinante. La politica degli Stati Uniti ha compiuto una svolta decisa verso l’affermazione della propria politica imperialistica. Superato il «complesso del Vietnam», gli Stati Uniti, come ha affermato Raniero La Valle alla recente conferenza di Atene, «abbandonando ogni remora e ogni simulazione, prendono coscienza di essere un Impero, e decidono esplicitamente di esserlo e di comportarsi come tale. La Repubblica si trasforma formalmente in Impero, e un Impero potenzialmente di dimensioni mondiali». Questa scelta fatta ancora prima che Reagan diventasse presidente, è stata suffragata da una serie di fatti: la ripresa della crescita dei bilanci militari, la progettazione e la costruzione di nuove armi nucleari e convenzionali, i missili Cruise ed MX, la costituzione della Forza di Spiegamento Rapido per gli interventi oltremare, l’installazione dei missili nucleari in Europa, la proclamazione della dottrina degli interessi vitali, da intendersi nei fatti come una dichiarazione di guerra al Terzo Mondo, la ripresa della produzione delle armi chimiche e la rottura dei vincoli degli accordi SALT II e ABM.
    Un secondo aspetto riguarda il ripristino della guerra come fondamento e culmine del rapporto internazionale. Sempre secondo La Valle: «Al di là del dominio delle strutture tecnologiche, quella che cresce è la pretesa a un dominio propriamente politico, che per realizzarsi ha ormai spregiudicatamente recuperato la disponibilità e l’uso del vecchio strumento della guerra, che sembrava ormai seriamente compromesso e sempre meno praticabile nell’età nucleare. Qualcuno, negli anni ’60, aveva addirittura teorizzato che l’avvento della guerra nucleare aveva fatto uscire la guerra dal territorio della regione, ed era diventata infatti un’espressione di comune buonsenso dire che la guerra era ormai impossibile. Il pieno recupero della guerra come strumento di dominio internazionale è avvenuto invece proprio mediante lo sfruttamento del tabù della guerra nucleare, usato in modo rovesciato, non più come impedimento e dissuasione alla guerra, ma come disinibizione e persuasione alla guerra. La cosa ha funzionato attraverso la distinzione tra guerra minacciata e guerre combattute. La guerra sempre minacciata e mai combattuta è quella tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Questa guerra sempre futura è assolutamente essenziale all’attuale sistema politico, non può mai essere abbandonata come possibilità reale, non può mai essere resa seriamente improbabile da prolungati periodi di distensione o da promettenti trattative di disarmo, perché essa è la regina di tutte le guerre e rappresenta la legittimazione e la condizione di esercizio di tutte le altre guerre. A tali guerre non si può rinunziare; esse hanno però bisogno di una copertura assicurativa. Pertanto esse vengono combattute con gli eserciti convenzionali, che operano però avendo alle spalle la protezione e la garanzia dell’armamento nucleare, che ha la funzione di dissuadere le altre potenze nucleari dall’intervenire, cioè ha la funzione di tenere lontani dalle proprie guerre terzi estranei, e di garantire perciò l’impunità per l’aggressore».

    Una società mondiale ancora primitiva
    Questi elementi stanno alla base di una situazione internazionale caratterizzata dall’assenza di regole nel comportamento fra gli Stati e da un vuoto di autorità nella funzione di organismi internazionali, primo fra tutti l’ONU, nati per garantire la pace nel mondo attraverso la costruzione di rapporti internazionali giusti e di uguaglianza. Da questo punto di vista non solo in questi anni non è stato possibile costruire l’edificio del diritto dei popoli, ma è andato profondamente in crisi il diritto internazionale classico. Sarebbe estremamente interessante capire perché è fallito l’ordine internazionale che si era cercato di costruire dopo la seconda guerra mondiale. La Valle tenta di fornire una parziale risposta generale affermando: «Quella che nasceva dalle ceneri e dalle distruzioni della seconda guerra mondiale, era in luce una società mondiale; o meglio, la guerra lasciava, contraddittori, divisi e insanguinati, i materiali, i popoli e gli Stati, che per la prima volta avrebbero dovuto organizzarsi e comporsi in una vera e unica società mondiale. Non essendosi mai realizzata fino ad allora, si può dire che tale società mondiale fosse una società nascente, una società primitiva. Essa pertanto si è trovata a vivere una fase storica analoga a quella attraverso cui sono passate tutte le società primitive, una fase in cui non domina il diritto, ma domina la violenza. Caratteristica delle società primitive sarebbe quella di una violenza generalizzata che viene gradualmente assoggettata e controllata sia attraverso il meccanismo del capro espiatorio (tutta la violenza viene concentrata contro chi viene assunto come il responsabile di tutto) sia attraverso i meccanismi di rielaborazione rituale e sacrificale della violenza, sia, nelle fasi più avanzate, mediante i meccanismi della violenza regolamentata, del diritto, della «guerra giusta». Solo una società matura può essere fondata e sostenuta senza che necessariamente si abbia ricorso alla violenza. La società internazionale, essendo ancora ai suoi albori, e dunque oggettivamente una società primitiva, è ancora una società che si crede necessariamente fondata sulla violenza. Perciò le armi, anche senza e prima che ci sia un nemico; e perciò le diverse forme di ritualizzare e controllare la violenza. E se, sull’onda delle speranze nutrite nell’immediato dopoguerra, la società internazionale nascente ha tentato di imbrigliare la violenza mediante il diritto e mediante la riduzione della guerra giusta all’unica ipotesi della legittima difesa, ben presto il fallimento di questo tentativo l’ha fatta regredire al meccanismo del capro espiatorio responsabile di tutto (che secondo i punti di vista è l’Unione Sovietica o sono gli Stati Uniti, o via via i palestinesi, la Libia, il Nicaragua, ecc.); e oltre che al meccanismo del capro espiatorio si è fatto ricorso ad altri meccanismi di gestione della violenza, dalla sua rappresentazione rituale nella guerra fredda, al suo effettivo esercizio sacrificale contro le vittime più povere e indifese, fino alla sua promozione come regolatrice suprema del rapporto internazionale mediante la consacrazione della legge del più forte e quindi della regola dell’assoggettamento e del dominio. In sostanza si può dire che al momento di porre mano alla costruzione della società mondiale, gli uomini, e soprattutto i poteri costituiti, si sono trovati impreparati a gestire il rapporto internazionale fuori dalle regole e dalle abitudini già collaudate dell’imperialismo e della guerra».
    Di fronte a questo processo che unifica nei fatti il sistema mondiale, la forza – e il senso – della Dichiarazione d’Algeri sta nel fatto che offre una sintesi completa e corrente dei diritti collettivi e individuali che meritano rispettosa protezione.
    Più che offrire delle soluzioni precise ai problemi, contiene i principi essenziali alla luce dei quali occorrerà elaborare rimedi adeguati, sia attraverso le scelte dei singoli Stati sia a livello di organismi internazionali. Il diritto dei popoli più che un sistema giuridico che intende sostituirsi all’attuale diritto interstatale, ha significato nella misura in cui offre alla collettività umana dei modelli di rapporti reciproci fondati sul riconoscimento dei popoli come soggetti politici. La Carta d’Algeri dimostra inoltre come, sulla base dell’unificazione del sistema mondiale, i problemi del cosiddetto Nord e del cosiddetto Sud sono strettamente legati, e che per essere affrontati e risolti richiedono un raccordo molto stretto, un’alleanza non solo ideale, ma operativa e politica, tra lotte di liberazione e lotte per la pace, per l’ambiente, per il lavoro, per la democrazia. Il diritto dei popoli cerca di svolgere una sintesi tra questi due fronti di lotta nella prospettiva di un impegno veramente internazionalista che supera i limiti di una impostazione o solo occidentale o solo terzomondista.

    Note:

    1 Jouve Edmond, Le droit des peuples, Parigi 1986, P.U.F.
    2 Droits de l’homme, droits des peuples, « Le Monde Diplomatique », febbraio 1984.
    3 Cassese A. e Jouve E. (a cura di) Pour un droit des peuples, Paris 1978, Berger-Levrault.
    4 François Rigaux, Les nouvelles frontières du droit des peuples, relazione svolta alla Conferenza d’Atene, novembre 7-11-1986.
    5 Senese Salvatore, La protection du droit des peuples: le cas du Tribunal permanent des peuples, «Cahiers» della Fondazione Basso, n. 6, 1986.
    6 Rigaux François, relazione citata. Le successive parti tra virgolette, se non specificate, sono estratte dalla stessa relazione.

    Andriani, Giacinto
    in: Peuples / Popoli / Peoples / Pueblos, n.ro 10 (giugno 1987)

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