Piero Basso
in Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos, n.ro 6 (febbraio 1985)
Nei giorni 23 e 24 marzo si è tenuta, a Napoli, la prima conferenza di organizzazione della Lega Italiana. I lavori sono iniziati con una manifestazione pubblica.
Iniziando i lavori di questa nostra prima conferenza di organizzazione desidero ringraziare i compagni della sezione di Napoli che ne hanno assicurato l’organizzazione, il Comune di Napoli che ci ospita in questa sala e che più tardi riceverà una nostra delegazione, i compagni delle altre sezioni della Lega che partecipano alla conferenza e che porteranno il contributo della loro esperienza, gli illustri ospiti presenti, rappresentanti di organizzazioni politiche e sociali, del mondo della cultura e della scienza, di movimenti di liberazione, che hanno accettato di discutere con noi i temi al centro dell’iniziativa della Lega. Perché questo è l’obiettivo della manifestazione di questa mattina: confrontare la nostra esperienza, le nostre scelte, il nostro modo di far politica, con le esperienze e le scelte di altre forze e altre organizzazioni impegnate nella stessa battaglia per la pace e la liberazione dei popoli. Non pensiamo infatti che sia possibile affrontare i problemi dell’organizzazione e del modo di lavorare della Lega prescindendo dagli obiettivi e dai contenuti della nostra azione, obiettivi e contenuti a cui deve essere finalizzata l’organizzazione, come non pensiamo che l’elaborazione del nostro progetto politico sia possibile senza il più ampio confronto di idee e di esperienze.
I compagni mi hanno affidato il compito di presentare qui le posizioni della Lega. Non credo sia possibile parlare della posizione della Lega senza accennare alle difficoltà attuali di forme di solidarietà internazionale di grande rilievo storico che hanno, direttamente o indirettamente, influito sulla coscienza collettiva della Lega.
Solo indiretta, attraverso l’esperienza di molti di noi, l’influenza della tradizione internazionalista del movimento operaio. Questo internazionalismo ha scritto pagine gloriose di storia, dalle grandi campagne internazionali di solidarietà e di boicottaggio alla difesa della Rivoluzione sovietica e alle Brigate internazionali in terra di Spagna.
Oggi questo internazionalismo è in difficoltà: da una parte ha pesato un certo appiattimento sulle posizioni dell’Unione sovietica; dall’altra, ed è questo che più ci interessa, una certa incapacità a cogliere la realtà delle lotte di liberazione dei popoli del Terzo Mondo. Sono ambigue le posizioni della seconda internazionale, contro la repressione dei popoli colonizzati che impedisce lo sviluppo dei commerci e degli sbocchi per i prodotti degli stati “civilizzati”, e, più vicino a noi, si ricordano i ritardi con cui gli stessi partiti comunisti delle metropoli hanno colto il senso delle rivendicazioni nazionali dei popoli coloniali e si sono schierati al loro fianco. Le molte e nobili eccezioni (tra cui in questi mesi si è molto ricordata l’opera di Louise Michel, quasi unica tra le migliaia di comunardi deportati in Nuova Caledonia ad avvicinarsi e a capire la popolazione autoctona) non annullano questo ritardo complessivo dei partiti della sinistra europea, in parte derivante anche da una lettura dogmatica di Marx, nel raccordarsi col grande movimento di liberazione nazionale dei popoli del Terzo Mondo dell’ultimo cinquantennio.
Lo sviluppo delle lotte per l’indipendenza e la feroce repressione che spesso le accompagna suscita simpatie e nuove forme di solidarietà. I casi dell’Algeria prima e del Vietnam poi sono, da questo punto di vista, esemplari. In entrambi la solidarietà internazionale, seppure tardiva, gioca un ruolo importante e contribuisce, insieme alle vittorie militari dei combattenti, a far crescere l’opposizione alla guerra in Francia e negli Stati Uniti, costringendo finalmente i due governi a trattare.
Su un altro versante le opere di Franz Fanon, di Josué de Castro, di Samir Amin, di René Dumont, di Arghiri Emmanuel, di Celso Furtado, di Gunder Frank e di tanti altri contribuiscono alla crescita e all’affermazione di una riflessione critica sui rapporti Nord-Sud, o piuttosto Centro-Periferia, e sul “modello di sviluppo” imposto dall’occidente ai paesi dominati.
È in questo contesto che, a metà degli anni ’70, nasce la Lega, formatasi nell’esperienza del primo e soprattutto del secondo Tribunale Russell, sul Vietnam e l’America latina.
Oggi anche questa forma di solidarietà tende ad affievolirsi, via via che la conquista dell’indipendenza formale e il peso della crisi economica mondiale rendono più acuti e complessi i problemi, sviluppano le contraddizioni, rendono più difficili le identificazioni. Non a caso è questo il momento in cui, parallelamente all’offensiva economica, militare e diplomatica reaganiana (pensiamo, per quest’ultimo aspetto, all’attacco contro il sistema delle Nazioni Unite, dall’UNESCO alla corte dell’Aja all’innovativo “diritto del mare”), si sviluppa l’attacco “ideologico” contro tutte le conquiste del pensiero terzomondista degli ultimi decenni .
Agli inizi degli anni ’80 la Lega è parte di questo movimento, e lo è con il prestigio e la forza che le derivano dalla sua storia e dalla specificità del suo impegno per i diritti dei popoli, quando nasce e si sviluppa impetuosamente in tutta Europa e in Italia il movimento per la pace. Di fronte al pericolo rappresentato dal proliferare di armi sempre più micidiali e incontrollabili, milioni e milioni di europei di ogni convinzione scendono in piazza a manifestare la loro volontà di pace. Questa ondata di protesta senza precedenti non è però diretta soltanto contro l’installazione degli euromissili, all’Est come all’Ovest; è diretta anche contro il ruolo di “teatro di battaglia” riservato all’Europa e la nostra subordinazione alle scelte politiche e militari delle due grandi potenze; ed è diretta contro l’espropriazione, da parte dei governi, del diritto dei popoli a decidere il proprio avvenire e addirittura la propria sopravvivenza. Non dimentichiamo che laddove il popolo ha avuto la possibilità di esprimersi, come ad esempio nei referendum organizzati un paio d’anni fa in vari stati degli Stati Uniti, le scelte sono sempre state radicalmente contrarie a quelle dei rispettivi governi.
Non ci nascondiamo che il processo che ci ha portato ad affiancare il tradizionale impegno a fianco dei movimenti di liberazione e per i diritti dei popoli con l’attenzione verso quanto di nuovo veniva esprimendosi attraverso il movimento per la pace (dalla priorità data al rapporto alla volontà di partecipare e di incidere della gente alle nuove e più vaste capacità di mobilitazione di cui il movimento dava prova) ha incontrato al nastro interno alcune difficoltà. L’“esplodere” del movimento per la pace obbligava la Lega, e non la Lega soltanto, a una più approfondita riflessione sui rapporti tra Nord-Sud ed Est-Ovest, tra riarmo-disarmo e sviluppo-sottosviluppo, tra scelte militari, politiche ed economiche.
Ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario della conferenza di Yalta, che si assume come punto di partenza dell’attuale divisione del mondo in due sfere di influenza, in due blocchi contrapposti; e quest’anno è anche il centesimo anniversario della conferenza di Berlino, che sancì la spartizione dell’Africa tra le potenze europee mediante frontiere tracciate a tavolino che separavano popoli uniti da comuni vincoli etnici, di cultura e di storia. L’accostamento di queste due ricorrenze ci pare emblematico del legame che corre tra due ordini di problemi che si sogliono considerare separati, quelli dei rapporti tra Nord e Sud e tra Est ed Ovest.
Ci siamo avvicinati alla novità rappresentata da questa grande mobilitazione popolare con un preciso bagaglio di esperienze. Sapevamo che il rapporto tra “disarmo e sviluppo”, per usare un binomio che facciamo nostro, non poteva essere il semplice frutto di una grande mobilitazione popolare, per la complessità dei rapporti e dei condizionamenti politici, economici, militari che reggono lo sviluppo degli avvenimenti. Avevamo ben presente l’esperienza dei paesi non allineati, passati da un non allineamento puramente politico e militare a un intervento attivo nella ricerca e nella proposta di nuove forme di rapporti internazionali. Avevamo soprattutto con noi il bagaglio della nostra esperienza di militanti attivi per i diritti dei popoli, e il rapporto con molti movimenti di liberazione .
I popoli sono al centro della dichiarazione di Algeri e della nostra iniziativa. Se la nazione è il patrimonio storico, l’origine comune in cui gli uomini si riconoscono, il popolo è il divenire, è la coscienza di sé che si costruisce nella lotta. Ma la stessa parola, popolo, è, in tutte le lingue, sinonimo di classi subalterne in contrapposizione a classi dirigenti. Il diritto all’autodeterminazione non può riguardare esclusivamente i popoli dominati da regimi coloniali o potenze straniere, ma anche i popoli formalmente indipendenti che non possono scegliere il loro destino storico a causa del dominio di una classe sociale privilegiata o di un governo imposto con la forza.
Tutta la nostra dichiarazione di Algeri è permeata di questo richiamo al diritto all’autodeterminazione. Scrive Lelio: “La coscienza popolare in occidente è passata da una concezione liberale, che domandava al governo di garantire i diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino, a una concezione democratica che vede il popolo in persona come il vero sovrano, avente diritto ad autogovernarsi e ad autodeterminarsi. Lo stesso processo deve condurre i popoli in via di sviluppo da una indipendenza puramente formale e politica ad una indipendenza totale… Questa centralità del diritto di autodeterminazione, tanto spesso espropriato dai gruppi dirigenti (e non solo nei paesi del terzo mondo) è la componente più importante del nostro patrimonio, e da essa siamo partiti per costruire l’ipotesi che abbiamo chiamata del “non allineamento dei popoli”.
Può sembrare, questa, una formula priva di senso, perché il non allineamento, o viceversa l’allineamento, all’uno o all’altro blocco, è la condizione di uno stato, non di un popolo; o può sembrare una formula utopica, una volta che sia correttamente intesa come appello all’impegno dei popoli per avviare a realizzazione una politica di non allineamento, considerando la profonda integrazione dei popoli d’Europa nelle due alleanze contrapposte, non solo dal punto di vista militare ma come “scelta di civiltà”.
In realtà l’aspirazione riassunta nell’espressione “diritto dei popoli al non allineamento” non è né utopica né priva di senso. Sempre più numerose sono le voci che si alzano, non solo dall’opinione pubblica ma anche da qualche governo occidentale, per un impegno volto al superamento della contrapposizione tra Est e Ovest, contrapposizione che è vista non solo come potenziale minaccia di guerra ma come reale strumento di dominazione delle due grandi potenze all’interno dei rispettivi blocchi, per una politica di disarmo non disgiunta dalla ricerca di forme alternative di difesa delle istituzioni democratiche, per un ruolo di pace e di sviluppo dei paesi europei.
Anche l’appello alla partecipazione dei popoli, al protagonismo, alla riappropriazione della capacità di autodeterminare il proprio avvenire, non è né utopico né immotivato. Siamo coscienti che i centri di decisione politica, economica, militare si fanno sempre meno numerosi e sempre più potenti e lontani dalla volontà popolare. Siamo persuasi anche che fenomeni come i movimenti di liberazione nazionale, come la rinnovata lotta contro l’apartheid dei popoli dell’Africa del Sud, come lo sviluppo del movimento sindacale in paesi diversissimi, dalla Polonia alle Filippine al Brasile, come il movimento per la pace in Europa (e come le stesse rivendicazioni di autonomie e particolarità locali in tanti paesi europei), tutti sono manifestazioni del rifiuto di strati sempre più vasti di uomini e di donne a essere privati di ogni reale potere di decisione, anche in paesi di più salde tradizioni democratiche. Non a caso uno dei temi che la Lega ha posto al centro della nostra discussione in vista del decennale della dichiarazione di Algeri è proprio quello della possibile incidenza futura della volontà e delle lotte dei popoli nel determinare i destini dell’umanità.
Non solo riteniamo che il diritto dei popoli al non allineamento possa divenire un obiettivo politico concreto, ma riteniamo anche che questa sia la strada che può dare unità alle rivendicazioni dei popoli del Nord e del Sud del mondo. Da sempre l’iniziativa della Lega ha avuto due punti fondamentali di riferimento: da una parte dar voce ai “popoli muti”, a tutti coloro che dalla dominazione straniera, da governi dittatoriali o dalla “diversità” culturale erano privati della stessa possibilità di esprimersi, di far sentire la propria voce; dall’altra ricercare i collegamenti tra le loro e le nostre lotte, far capire che questa voce è anche la nostra. Crediamo di essere riusciti a mantenere il primo di questi due impegni. Tutti qui ricordiamo le parole del senatore Michelini all’apertura dei lavori del Tribunale Russell: “… rappresentiamo coloro che non possono venire perché sono scomparsi dalla faccia della terra, assassinati dal regime. Quelli che non possono venire perché sono stati mutilati; quelli che non possono farsi udire perché le loro menti sono state chiuse per sempre, vittime dei tormenti patiti. La nostra voce è quella di tutti coloro che avendo sofferto non possono gridare la propria ribellione e proclamare la propria lotta…”. A questi uomini, a queste donne abbiamo sempre cercato di dare una possibilità di farsi ascoltare; unica misura per il nostro impegno è stata l’oppressione di cui erano oggetto, la loro volontà di liberarsi, mai la maggiore o minore vicinanza alle nostre idee o ai nostri obiettivi.
Forse siamo meno riusciti a cogliere e presentare, a noi stessi e all’opinione pubblica a cui ci rivolgiamo, il legame esistente tra i meccanismi di dominio in atto qui e nei paesi del Terzo Mondo e la sostanziale unità delle lotte per il progresso sociale e politico. Oggi possiamo e dobbiamo compiere un passo avanti in questa direzione. Il confronto tra Est e Ovest, che per noi significa riduzione degli spazi di democrazia e minaccia di un possibile sterminio futuro, per i popoli del Terzo Mondo è già oggi ben più di una minaccia ma una realtà fatta di occupazione militare di interi paesi, direttamente da parte delle due grandi potenze o attraverso i loro alleati; di regimi oppressivi che possono perpetuarsi solo perché saldamente appoggiati dall’una o dall’altra grande potenza; di guerre che benché “locali” non sono meno sanguinose per i popoli costretti a subirle oltre che foriere di pericoli per la stabilità internazionale; di feroce repressione di qualunque lotta di liberazione il cui eventuale successo è visto come una vittoria dell’altra grande potenza. Il superamento dei blocchi è quindi un’esigenza vitale e immediata per tutti i popoli del mondo. Ma anche su un altro piano, quello dello sviluppo sociale e politico (che è cosa ben diversa dalla crescita economica a profitto di pochi), esiste una unità di interessi e obiettivi che è nostro dovere mettere in luce. Permettetemi di citare ancora una volta Lelio, che nella tavola rotonda su “movimenti di liberazione e movimento operaio”, alla vigilia del nostro secondo congresso, ricordava come per i paesi del Terzo Mondo l’ingresso nel mercato capitalistico mondiale non è rappresentato tanto dall’affermarsi del rapporto salariale, del rapporto capitalistico di fabbrica, ma dalla distruzione del tessuto economico-sociale-culturale della società, con le gravi conseguenze di urbanizzazione parossistica, di inquinamento, di disoccupazione, di emigrazione, di deculturazione, di alienazione che in quasi tutti questi paesi hanno sostituito gli equilibri preesistenti, che comunque assicuravano una sia pur modestissima possibilità di sussistenza (e di questa rottura la vertiginosa crescita delle aree della fame è la manifestazione più macroscopica). E da qui partiva per sottolineare come la ribellione che nasce contro questa distruzione non mira a ricostruire il passato, ma a utilizzare la tradizione per costruire una società nuova, come la coscienza rivoluzionaria nasca non tanto dal rapporto salariale quanto dal rapporto di dipendenza, di esclusione dalle scelte, che accomuna ceti sociali diversissimi sia nei paesi periferici che in quelli del centro.
Se questo, che ho cercato di tracciare, è il quadro in cui si muove la nostra ricerca, come e in che misura i temi che affrontiamo nella pratica quotidiana della vita della Lega e la stessa nostra riunione di oggi si inseriscono in questa prospettiva?
È superfluo ribadire qui che l’ampia autonomia di ogni sezione della Lega, di ogni suo gruppo di lavoro, consentendo lo sviluppo di iniziative diverse e a diversi livelli -ciò che a mio giudizio rappresenta una ricchezza e una forza per la Lega- esclude ogni rigida pianificazione delle attività attorno a uno o a pochi temi. L’unità complessiva dell’iniziativa e della ricerca nasce dalla nostra comune esperienza, dalla comunanza del punto di vista da cui ci collochiamo per capire gli avvenimenti e per contribuire alla crescita dell’attenzione verso i diritti e la liberazione dei popoli. Il diritto al non allineamento, la ricerca di terreni di incontro tra le aspirazioni di popoli diversamente collocati sulla scena internazionale non sono quindi tanto temi di ricerca in sé ma “chiavi di lettura” degli avvenimenti, obiettivi da ricercare nelle iniziative più diverse. La nostra conferenza di organizzazione deve essere un momento di confronto anche su questi temi.
L’anno scorso abbiamo tenuto, a Roma e a Genova, due convegni sul tema della cooperazione allo sviluppo. In entrambi – pur nella differenza degli argomenti specificamente affrontati e del tipo di partecipazione – abbiamo cercato di vedere il ruolo che la cooperazione allo sviluppo può svolgere nel determinare una diversa “qualità” della politica internazionale dell’Italia. Anche qui non si tratta di utopie: l’esempio dell’ENI di Enrico Mattei, purtroppo ormai lontano, ci ricorda come sia possibile coniugare l’interesse del nostro paese con l’aspirazione all’indipendenza economica di altri paesi e di altri popoli.
In ottobre abbiamo tenuto, a Milano, un veloce incontro sui temi dell’Europa e del non allineamento. Anche in quell’occasione si è sottolineato con chiarezza che la nostra solidarietà con i movimenti indipendenti per la pace dei paesi dell’Europa dell’Est nasce non tanto da una generica solidarietà, pur importante, ma dall’esigenza -per noi vitale- di avvicinare le esperienze di democrazia, di partecipazione e di lotta politica delle nostre società con le esperienze di programmazione e di autogestione portate avanti, pur tra contraddizioni e difficoltà, nell’altra metà del nostro continente.
Sono reduce dal convegno sulle migrazioni, svoltosi con grande e importante partecipazione due settimane fa a Milano. Solidarietà con gli immigrati, questi moderni schiavi “taillables et corvéables à merci”? Certamente; ma ci pare importante che il convegno abbia messo in luce anche come la presenza degli immigrati contribuisca a evidenziare contraddizioni non da loro create ma tutte interne alla nostra società, contraddizioni che riguardano un costoso sistema scolastico che sforna sempre nuove leve di disoccupati, la crescita parallela della disoccupazione e dell’immigrazione, modi di produzione arretrati che richiedono lavoro nero e che grazie a questo divengono sempre più arretrati, servizi sociali insufficienti e inefficienti, con la conclusione che la condizione degli immigrati è quella di tanti giovani, donne, lavoratori marginali, e che i problemi degli uni potranno essere risolti solo insieme ai problemi di tutti.
Andiamo a un grande convegno sul debito internazionale: al di là del contenuto tecnico del problema, come non vedere che anche in questo caso possono esservi obiettive convergenze di interessi tra i popoli del Terzo Mondo, che alla salita del dollaro e dei tassi di interesse pagano pesantissimi tributi di recessione e spesso di vera e propria fame, e gli interessi del nostro paese -se non delle banche- che ha tutto da guadagnare dallo sviluppo del commercio e degli scambi?
La strada che abbiamo davanti non è facile, come non è facile per chiunque rifugga dalla facile demagogia sullo “sterminio per fame” (il quale è, purtroppo, molto reale, e non sarà fermato da iniziative di stampo radical-elettorale). Ma che non fosse facile lo sappiamo da tempo. Sappiamo quanto lento e faticoso sia stato il cammino per l’affermazione dei diritti umani, dai semplici diritti civili e politici ai diritti economici, sociali e culturali sino all’attuale affermazione dei “diritti di solidarietà” alla pace, allo sviluppo, all’ambiente; cammino fatto di rivendicazioni, di lotte, di lenta affermazione nella coscienza degli uomini. Di questa lotta siamo e vogliamo continuare a essere modesti ma non trascurabili protagonisti. Per questo abbiamo bisogno di chiarezza di idee e forza organizzativa. La conferenza che iniziamo oggi può darci un contributo in entrambe le direzioni.
Sul tema del non allineamento dei popoli tutta la Lega è attivamente impegnata, in forme anche molto diverse tra loro.
In Argentina e in Spagna è stata attivamente perseguita la ricerca di adesioni alla dichiarazione pubblicata nel 1984. Tra le adesioni più significative segnaliamo quelle di Adolfo Perez Esquivel, premio Nobel per la pace, dell’OSEA di Buenos Aires (coordinamento di varie associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani di solidarietà con gli esuli argentini), Justitia et pax di Barcellona, la gioventù socialista spagnola, il dipartimento giovanile della UGT, l’associazione missionaria Seglar di Madrid.
Numerosi dirigenti della Lega hanno citato o pubblicato la dichiarazione in diverse occasioni: Luis Molta presenta ampiamente la proposta in un articolo interamente dedicato al diritto dei popoli al non allineamento; Michele Charalambidis ne parla in un articolo su Pacifismo e terzomondismo; Edmond Jouve vi fa ampio riferimento nel volume della collana “Que sais-je?” dedicato ai diritti dei popoli.
In Italia e in Spagna si è avviato un dibattito e un confronto sui contenuti della proposta. Tra i molti temi che emergono, i problemi della neutralità tra i blocchi e della difesa alternativa, dei rapporti tra Europa dell’Ovest ed Europa dell’Est, delle politiche commerciali e degli “aiuti”, del debito internazionale.
in: Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos, n.ro 6 (febbraio 1985)