Henri Alleg
in Léo Matarasso, Seminario del 6 dicembre 2008, Cedetim, Parigi
Era evidentemente per questa ragione, in primo luogo, che veniva spesso ad Algeri per difendere il quotidiano di cui ero direttore -Alger républicain- che, di fronte alle pubblicazioni dei grandi colonialisti, era l’unico a prendere posizione contro il sistema che li serviva e contro i suoi mostruosi difetti. Denunciare le disuguaglianze, le ingiustizie, le torture usate regolarmente dalla polizia, il razzismo, l’oppressione e lo sfruttamento spudorato degli algerini, il vero apartheid (reale anche se negato) di cui erano vittime coloro che veniva a difendere, era un impegno difficile e pericoloso. L’Alger républicain e coloro che si battevano per questo giornale erano costantemente oggetto di attacchi da parte dell’amministrazione coloniale. Sequestri, multe, processi, condanne pesanti fino al carcere, questa era la sorte abituale del giornale e di coloro che lo dirigevano.
Léo veniva quindi a perorare la causa del giornale e dei suoi collaboratori. Spesso difendeva anche i leader dei partiti nazionalisti e dei movimenti anticolonialisti, anch’essi vittime della repressione permanente che regnava in questo paese, i cui padroni provvisori osavano affermare senza ridere che era una “provincia francese” e che vi regnavano le leggi della Repubblica, proprio come a Parigi o a Marsiglia.
La sua presenza ad Algeri non fu quindi percepita come una semplice visita di un avvocato venuto dall’altra parte del Mediterraneo per assistere i suoi clienti, ma come un evento con un particolare significato politico. Agli occhi degli algerini, Léo non era solo il prestigioso maestro del Foro la cui presenza non poteva passare inosservata, ma anche un amico del loro popolo in lotta per la libertà, che era venuto a mostrare la solidarietà degli anticolonialisti francesi. Dalla parte della “giustizia coloniale”, procuratori, giudici istruttori o di tribunale e avvocati locali, la maggior parte dei quali erano sostenitori del sistema, non facevano mistero della poca simpatia che avevano per il loro collega parigino, difensore e amico degli “indigeni”, il quale, nelle sue arringhe, non esitava a denunciare il regime coloniale, che, secondo il loro punto di vista, portava ad un attacco alla stessa madrepatria e costituiva quindi un vero e proprio tradimento.
Man mano che la situazione si induriva e la lotta armata diventava più intensa, le visite di Léo in Algeria diventavano sempre più rischiose. Quelli che si chiamavano “ultras”, cioè gli oltranzisti della colonizzazione, fanatici dell'”Algeria francese”, della guerra e della repressione ai peggiori estremi. Costoro lasciavano apertamente intendere che, se ne avessero avuto la possibilità, non avrebbero esitato a “regolare i conti” con questi avvocati, “traditori della Francia” e “complici dei ribelli” che avevano il coraggio di venire a provocarli ad Algeri. E, naturalmente, Léo è stato tra i primi ad essere preso di mira.
Fu in queste circostanze che la stima e l’amicizia che ci legava da tempo si approfondì. Se apprezzavo il suo intuito politico, il suo coraggio, la sua generosità e il suo talento, ero anche molto sensibile alla sua conversazione, in cui i lampi della sua cultura, la sua ironia e il suo meraviglioso umorismo erano sempre presenti.
Nel settembre 1955, dopo la messa al bando del giornale, contemporaneamente a quella di varie organizzazioni anticolonialiste tra cui il Partito Comunista Algerino, era tornato ad Algeri per aiutarmi a preservare ciò che, nonostante la situazione, poteva ancora essere dei diritti e dell’eredità di “Alger républicain”. Poi, fu per me, come per molti dei miei compagni, il tuffo nella clandestinità, l’arresto nel giugno 1957, la tortura da parte dei parà della 10ª Divisione Paracadutisti del generale Massu.
Ho rivisto Léo alla fine di agosto o durante il settembre dello stesso anno, nella prigione civile di Algeri, questo ex forte turco che i francesi hanno soprannominato “Barberousse” e che gli algerini chiamano “Serkadji”. Fu in una delle sale riservata alle visite degli avvocati con i loro “clienti”, un momento di intensa emozione per Léo e per me questo ritrovarci, sotto lo sguardo del direttore della prigione, che ci osservava da dietro una porta di vetro. Durante il mese in cui gli aguzzini mi hanno tenuto prigioniero, Gilberte, mia moglie, tutta la mia famiglia e lo stesso Léo avevano temuto che, come per molti altri militanti arrestati e poi assassinati, tra cui il mio compagno Maurice Audin, i paracadutisti avrebbero improvvisamente annunciato la mia “scomparsa” o la mia “fuga” un giorno o l’altro. Ritrovarmi lì, in prigione, a stringere le mani di Léo, il mio caro amico, dopo quelle settimane di angoscia, prima nelle prigioni di El Biar dove operavano gli aguzzini, poi nel campo di concentramento di Lodi, fu, per me e per lui, come la consacrazione di una vittoria.
Da Lodi, grazie all’aiuto delle mogli di alcuni compagni internati, avevo potuto rivelare le torture subite nelle prigioni dei pracadutisti in una denuncia indirizzata al pubblico ministero, di cui Gilberte, mia moglie, che si trovava a Parigi dove viveva dopo la sua espulsione dall’Algeria, aveva ricevuto prima una copia. Questo testo doveva anche essere inviato alla stampa. Due quotidiani, L’Humanité e Libération all’epoca, lo pubblicarono integralmente il giorno dopo, il che significa che furono immediatamente sequestrati. Léo sapeva, da molto tempo, che quello che avevo subito non era affatto eccezionale e che, nonostante le solenni smentite dei ministri e dei capi militari, questo era il trattamento abituale riservato dalla “giustizia” francese agli indipendentisti. Ed era convinto che per far progredire la causa della pace, era necessario che quei milioni di francesi, inebriati dalla propaganda ufficiale che dipingeva la ‘pacificazione’ nei colori di un’idilliaca azione umana, conoscessero la verità e gli orrori quotidiani praticati in loro nome.
Fu questa idea a motivarlo quando mi disse bruscamente: “Dovresti scrivere tutto quello che hai vissuto. Questo sarebbe molto importante. All’epoca il suggerimento sembrava assurdo. Naturalmente, capivo il valore per il mondo esterno di una tale testimonianza che, di fatto, non sarebbe stata solo la mia ma quella di migliaia e migliaia di combattenti, molti dei quali erano stati assassinati dai loro torturatori, come Maurice Audin, Ali Boumendjel e tanti altri. Sapevo anche che tra coloro che erano sopravvissuti – la maggior parte dei quali erano, a causa del sistema coloniale, totalmente analfabeti – erano pochi quelli che avrebbero potuto rispondere al suggerimento di Léo . Ma quello a cui ho pensato prima è stata l’impossibilità pratica di farlo nelle condizioni della prigione. Come potevo riuscire a scrivere clandestinamente un tale testo, a nascondere le pagine per poi passarle all’esterno quando la cella che occupavo con due compagni era costantemente ispezionata in ogni angolo dalle guardie e quando ognuno di noi era lui stesso sottoposto a una meticolosa perquisizione personale quando andava nella sala delle visite degli avvocati. Léo non fu convinto da questi argomenti e, aggrappandosi alla sua idea, mi congedò, chiedendomi solo di pensare alla sua proposta.
Tornato nella mia cella, ho informato i miei due compagni. Nonostante il rischio di gravi sanzioni che avrebbero colpito anche loro se fossi stato scoperto, hanno subito mostrato non solo il loro accordo ma anche il loro entusiasmo per il progetto. Così mi sono messo al lavoro.
Quattro piccole pagine di scrittura minuta. All’inizio e alla fine ho riservato alcune righe presumibilmente indirizzate al mio avvocato, in realtà destinate solo a trarre in inganno la guardia. Queste carte, piegate e ripiegate, erano nascoste in fondo ai miei calzini o ai miei pantaloni mentre aspettavo che arrivasse Léo o un altro avvocato amico. Un’attesa che poteva durare abbastanza a lungo, a volte diverse settimane. Solo dopo questa “consegna” io continuavo a scrivere il mio testo.
L’intero testo, giunto a Parigi, fu dato in segreto a Gilberte, mia moglie. Léo si rivolse allora ai grandi editori parigini, i quali conclusero tutti che era assolutamente necessario pubblicare la storia, ma che non se ne sarebbero assunti la responsabilità, data la probabilità di sequestro, di procedimento legale e di condanna. Solo Jérôme Lindon, direttore delle Editions de Minuit, fondate durante la Resistenza, accettò di correre il rischio. La Question – titolo da lui stesso suggerito – fu quindi pubblicato senza ulteriori indugi nel febbraio 1958 e, come Léo aveva previsto, questo racconto ebbe subito una straordinaria diffusione in Francia e all’estero, partecipando alla denuncia della guerra coloniale e allo sviluppo della lotta per la pace.
Non ci sarebbe stato “Question” senza Léo Matarasso, che non ha mai rivendicato il ruolo che ha avuto nel far scrivere e finalmente pubblicare questo libro.
Sono lieto che questa riunione mi abbia dato l’opportunità di ricordarvelo.
Alleg, Henri