Piero Basso
in Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos, n.ro 8 (ottobre 1986)
Dieci anni sono trascorsi da quel 1976, e la forza delle lotte dei popoli ha imposto sempre più la nozione di “diritti dei popoli” nella coscienza collettiva, anche se non ancora a livello “ufficiale”. Ed è proprio questa accresciuta sensibilità che ne rende però più palesi le violazioni: popoli stranieri nel proprio paese, come i Palestinesi o i Neri sudafricani; popoli cacciati a milioni dalla propria terra, come in Afghanistan, in America centrale, nel Corno d’Africa; popoli sottoposti a regimi brutalmente repressivi, come in tanti paesi africani, asiatici, latino-americani.
Ma i più gravi attentati e le più gravi minacce ai diritti dei popoli, di tutti i popoli, si manifestano non solo in questi casi estremi ma nella “normalità” in cui viviamo tutti i giorni. L’aggravarsi e l’estendersi dell’area della fame, fenomeno sconosciuto in questa dimensione sino a una ventina d’anni fa, l’impatto crescente del debito estero contro ogni prospettiva di sviluppo di tanti paesi del Terzo Mondo, l’aumento drammatico della disoccupazione e della sottoccupazione come conseguenza apparentemente “naturale” del progresso tecnologico, la corsa agli armamenti che minaccia non solo l’avvenire dell’umanità, ma il suo stesso presente, restringendo gli spazi di vita democratica, sottraendo enormi risorse allo sviluppo, imponendo governi militari ai paesi più deboli, sono altrettanti attentati ai diritti dei popoli. È ben chiaro che tutti questi fenomeni rappresentano un pericolo sempre più grave per lo sviluppo democratico di tutte le società, e per lo stesso mantenersi degli spazi di democrazia che i popoli si sono conquistati.
Di fronte a questo aggravarsi delle tensioni internazionali la Dichiarazione dei diritti dei popoli potrebbe apparire come un semplice pezzo di carta, un elenco di buone intenzioni. Non è così, e per diversi motivi.
Intanto la Dichiarazione rappresenta un organico punto di riferimento che consente di compiere precise scelte di campo; in un panorama politico in cui troppo spesso prevale la Realpolitik, per non dire la politica-spettacolo o la mera ricerca del potere, un solido ancoraggio per leggere e interpretare gli avvenimenti è in sé un fatto politico; troppo spesso la sinistra italiana ha sperimentato che non ci sono scorciatoie facili, e che espedienti tattici rischiano di trasformarsi in arretramenti da cui poi è difficile risalire. In secondo luogo l’insistenza sui diritti dei popoli, come cento o duecento anni fa sui diritti individuali, contribuisce, sia pure lentamente e faticosamente, a far maturare le coscienze, a rendere sempre più evidente il contrasto tra realtà e affermazioni di principio, sempre meno accettabile l’attuale sistema di relazioni internazionali, contribuisce cioè a conquistare alla causa del cambiamento il profondo delle coscienze, l’unico terreno su cui le nostre armi, che sono quelle della ragione e del cuore, sono superiori a quelle di coloro che, come ha detto Allende, “hanno la forza ma non la ragione”.
Infine, la forte affermazione al diritto all’autodeterminazione, in tutti i suoi aspetti, il richiamo alla democrazia, alla partecipazione, fanno della Dichiarazione anche uno strumento direttamente politico al servizio della lotta dei popoli, l’indicazione di un terreno di iniziativa destinato a diventare sempre più importante. Per chi crede alla validità attuale della visione marxiana del socialismo come passaggio dal regno della necessità al regno della libertà, come piena affermazione dell’uomo, del suo diritto a partecipare a tutti gli aspetti della vita sociale e politica, a costruire, insieme a tutti gli altri uomini e donne che concorrono a formare un popolo, il proprio avvenire, ci sembra che il richiamo ai diritti dei popoli sia un momento necessario di questa prospettiva. Basso, Piero
in: Peuples/Popoli/Peoples/Pueblos, n.ro 8 (ottobre 1986)